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Channel: Antichi mestieri napoletani – Vesuvio Live
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Antichi mestieri di Napoli: ‘o mellunaro, che improvvisava cabaret di piazza

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mellonaro

Il palcoscenico della Napoli dell’800 è stato per lungo tempo animato da venditori ambulanti bizzarri e stravaganti in grado di attirare l’attenzione di una platea sempre più vasta di acquirenti grazie alla forte inventiva e ad una parlantina vivace e folkloristica.
Un mestiere simbolo della tradizione popolare partenopea è ‘o mellunaro ovvero il venditore di angurie e meloni che girovagava per le vie della città con un carretto, trainato da un cavallo o da un asino, sul quale venivano esposte delle fette del frutto in questione riposte su pezzi di ghiaccio.

I prodotti erano rispettivamente ripartiti tra mellune ‘e acqua, la classica anguria, mellune ‘e pane, i meloni bianchi, e di capuanèlle, i meloni dalla scorza verdognola e raggrinzita conservati in un reticolo di paglia, appesi ai balconi e consumati durante il periodo natalizio.
Inoltre i “mellunari” più esuberanti erano soliti improvvisare un cabaret di piazza: per invogliare l’acquisto della loro mercanzia si cimentavano in vere e proprie aste al ribasso o, attraverso l’assaggio del frutto, da staccare direttamente dalla punta del coltellaccio, garantivano ai clienti la qualità e la bontà del prodotto.
Anche le grida di richiamo non mancavano di originalità:
Teneno ‘o fuoco d’ ‘o Vesuvio ‘ dinto
’Nce sta ‘o diavolo ‘a dinto: vih, che fuoco ‘e ll’inferno
Jammo, nu sordo: mange, vive e te lave ‘a faccia
Tante d’ ‘o russe, ca pare ca s’è apicciato ‘o ciuccio cu tutta ‘a carretta, oh anema d’ ‘o ffuoco
Chiammate ‘o carro d”e pumpiere

La figura del mellunaro per quanto sia stata in parte soppiantata, continua ad essere presente, tra le strade e i vicoli di Napoli donando alla città quel tocca che la rende unica e la caratterizza come la “Napoli dai mille colori”.
Attualmente il carretto, con il susseguirsi dei secoli, è stato sostituito da grandi camion fermi agli angoli delle vie o nei punti strategici delle strade cittadine.
Concludendo è possibile affermare che ad ogni epoca corrisponde una differente modalità di vendita, ciò che di sicuro non cambia è la voglia di una fetta fresca d’anguria o di melone da gustare nel pieno dell’estate.

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‘O chianchiere: ecco perché in Napoletano si dice così

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carne macellaioNennì viene ccà, hê ‘a fà nu servizio a mammà. Vaje add’’o chianchiere e fatte dà cinche sacicce, c’’e ffaje signà ncoppo ‘o cunto. Fa’ ampressa e statte accuorto!

Quante volte le nostre mamme, le nostre nonne ci hanno chiamato per chiederci di andare chianchiere? E quante volte volte ci siamo chiesti perché sull’insegna della bottega ci fosse scritto macelleria e non chianca, o come mai la parola chianchiere fosse così diversa dall’italiano macellaio?

Per quanto riguarda la Lingua Italiana è molto semplice intuire da dove venga la parola “macelleria”, ossia dal Latino macellum. Il macellum, nel mondo dell’antica Roma, non era la semplice bottega dove venivano uccisi gli animali e vendute le loro carni ai fini dell’alimentazione, bensì proprio il mercato di carni e altri generi alimentari, in particolare carne e pesce o anche frutta e verdura provenienti da zone lontane. Un celebre esempio di macellum è quello di Pozzuoli, erroneamente indicato come Tempio di Serapide a causa del rinvenimento di una statua di quel dio idolatrato dagli antichi egizi. Il macellarius – da cui macellaio e le forme arcaica o dialettale macellaro – era dunque uno dei venditori che operavano del macellum.

Chianchiere macellaio

Chianchiere. Foto da http://ascm.altervista.org/

Per capire invece l’origine del napoletano chianchiere dobbiamo guardare al modo in cui quest’ultimo lavorava: i pezzi di carne che costui tagliava venivano adagiati ed esposti su di un bancone di legno di lunghezza e larghezza variabili (vedi foto in bianco e nero), come avviene ancora oggi in poche macellerie, che in Latino si chiamava planca (asse, tavolo). A testimoniare tale uso esistono anche diversi quadri, tra cui la Bottega del macellaio di Joachim Beuckelaer conservato al Museo di Capodimonte.

Poiché le lingue parlate sono vive e si evolvono insieme alla società, planca si è trasformato con il tempo in chianca, che indica perciò l’oggetto sul quale era possibile visionare la merce che si aveva intenzione di acquistare e che contraddistingueva la bottega di colui che, a questo punto, bisognava chiamare chianchiere. Lo stesso processo lo possiamo constatare, per esempio, in chianella e pianella (pantofola), chiano e piano, chianto e pianto, chiazza e piazza.

Fonti:
– IL, Vocabolario della Lingua Latina (terza edizione), Loescher Editore.

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Chi erano i monzù? Rivoluzionarono l’antica arte della cucina napoletana

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maria-antonietta

La tradizione culinaria napoletana, oggi riconosciuta in tutto il mondo come sinonimo di gusti e ricchezze inimitabili, è il risultato delle tantissime culture che si sono susseguite nei secoli ed i “monzù” sono stati l’apice di questa evoluzione. Il “Liber de Coquina”, uno dei più importanti ricettari medievali che sono arrivati fino a noi, testimonia che, già nel XIII secolo, Napoli aveva già recepito la ricercata cucina del mondo arabo, con l’utilizzo di spezie ed accostamenti inimmaginabili nell’Europa del tempo.

Così, ingredienti poveri riuscivano ad unirsi in sapori forti e genuini creando molte delle pietanze che gustiamo ancora oggi. Tuttavia, la vera rivoluzione culinaria napoletana arrivò sotto il regno dei Borbone e la conseguente influenza della raffinatissima Francia. Abbiamo parlato spesso del complicato rapporto matrimoniale fra Ferdinando IV di Borbone, il “Re Lazzarone”, con l’altezzosa Maria Carolina d’Austria. Lui cresciuto come uno scugnizzo fra i vicoli di Napoli, predisposto più alla caccia ed allo sport che ai lustri nobiliari ed incline a scherzi e giochi poco consoni ad un sovrano; lei, fiera esponente della casata asburgica ed abituata a lussi ed onori di ogni genere.

Nonostante l’abissale differenza, i due sovrani trovarono un giusto compromesso coniugale: Ferdinando continuava a comportarsi da lazzarone, mentre Carolina cercava inutilmente di inculcargli la sua classe. C’era una cosa, però, che la regina non riusciva a tollerare: la cucina napoletana del tempo. Quei sapori tanto marcati e schietti la disgustavano al punto da chiedere aiuto alla sorella Maria Antonietta, Regina di Francia fino alla Rivoluzione, nota buongustaia, altezzosa quanto lei e talmente ben voluta dal popolo da essere ghigliottinata.

Per salvare il palato della sorella, Antonietta inviò alla corte di Napoli alcuni fra i migliori cuochi francesi per educare i colleghi nostrani ai gusti più in voga del tempo. La cucina napoletana, però, era troppo particolare per essere assorbita da quella d’oltralpe, anzi, avvenne l’esatto opposto: la nuova generazione di chef partenopei creò una cucina completamente nuova, che arricchiva quella tradizionale con creme e preparazioni tipiche francesi. I nuovi artisti della tavola venivano appellati col titolo di Monsieur, “signore” in francese.

Come spesso è accaduto, il termine è stato alterato fino ad arrivare ad una forma più facilmente pronunciabile nelle nostre terre: così, i monsieur divennero in tutto il Regno di Napoli, i “monsù”, poi “monzù”. Una etimologia confermata anche dall’Enciclopedia Gastronomica Italiana, che definisce in questo modo il termine: “traduzione dialettale napoletana e siciliana della parola francese monsieur. Monzù erano chiamati nei secoli XVIII e XIX i capocuochi delle case aristocratiche in Campania e in Sicilia perché, in epoca di influenza gastronomica francese, niente più di un titolo francesizzante pareva premiare l’eccellenza, anche se essi di solito francesi non erano.”

Alle dipendenze delle più importanti famiglie nobiliari del tempo, punte di diamante indiscusse in ogni corte, i monzù arrivarono a formare vere e proprie casate nelle quali la sublime arte culinaria veniva tramandata di padre in figlio e perfezionata dopo ogni generazione. Secondo quanto riportato da ristorazioneruggi.com, fu proprio grazie ad uno di loro, tale Gennaro Spadaccino, che oggi abbiamo la forchetta con quattro punte.

Anche questa invenzione venne ordita da Maria Carolina: i maccheroni erano uno dei piatti più amati dal popolo, che per raccoglierli bene usava mangiarli con le mani, usanza che ripugnava la regina. Fu sul punto di bandirli completamente dal regno, ma non aveva fatto i conti col marito, amante sfegatato della pasta ed anche lui estimatore del gustarla con le mani. Così, per salvare matrimonio e regno, Carolina ordinò al suo monzù più fidato di creare un sistema per sostituire l’uso delle mani.

I monzù hanno rivoluzionato più di una volta l’alta cucina di Napoli e del mondo intero, ma, ormai, sono figure professionali estinte. Uno dei pochi grandi esponenti di questa nobile arte è Gerardo Modugno, l’ultimo vero monzù napoletano, che gestisce una prestigiosa accademia volta a tramandare alle future generazioni l’antica cucina aristocratica che deliziò il Regno delle Due Sicilie.

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‘O mpagliasegge”: l’antico mestiere scomparso che ispirò Salvatore di Giacomo

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Napoli è la città dai mille colori ma anche la città dai mille ed originali mestieri.

Tanti e vari sono i lavori artigianali che nei decenni hanno animato il capoluogo partenopeo, molti dei quali ormai scomparsi o miracolosamente sopravvissuti grazie ad un passaparola tramandatosi di padre in figlio. Un’antica professione che merita una particolare attenzione è quella praticata dai seggiolari o ‘mpagliasegge.

I seggiolari, mestiere principalmente svolto da donne, erano coloro che producevano sedie di tutti i tipi e dimensioni intrecciando fili di paglia sottile su un telaio di legno con spalliera. Tra gli strumenti adoperati da questi stravaganti artigiani vi erano naturalmente i fili di paglia, gli spruoccoli, traverse in legno necessarie per stendere e intrecciare i fili, un coltello affilato per tagliarli e una stecca per favorire l’intreccio.

Tanto celebre fu quest’arte da essere menzionata in una famosa canzone del poeta napoletano Salvatore di Giacomo, ‘O Vascio, che racconta la storia di una mpagliasegge che viveva, come suggerisce il titolo stesso, in un basso con il marito, il quale svolgeva la professione di Maestro d’Ascia, l’attuale falegname. Nonostante le umili e modeste origini, questa coppia aveva avuto la fortuna di dare alla luce una figlia ch’ è na vera meraviglia.

Ma non finisce qui: tra le strade strette della città passeggiavano anche gli mpagliasegge ambulanti, il cui compito era quello di riparare le sedie di paglia rotte o usurate.

Seppur attualmente la maggior parte delle sedie vengono prodotte a macchina con fili sintetici o ancor peggio sostituite con quelle in plastica, resistono ancora poche e rare botteghe dove viene praticata questa originale e minuziosa arte.

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‘O Stricario, l’antico mestiere riconosciuto dal Re Ferdinando II

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Un tempo nella città di Napoli non era difficile avvistare, soprattutto nei pressi di località marittime, dei piccoli chioschi specializzati nella vendita di ostriche e, con il tempo, anche di frutti di mare di ogni tipo.

Questo singolare venditore era conosciuto con il nome di Ostricario e la sua nobile arte non era destinata a tutti ma veniva tramandata per discendenza diretta, quindi di padre in figlio o, in casi eccezionali, a coloro i quali venivano giudicati come particolarmente meritevoli.

‘O Stricario, al contrario del maruzzaro, non era un semplice venditore, piuttosto un esperto intenditore di frutti di mare che, con estrema cura, raccoglieva personalmente le ostriche dagli scogli per poi servirle ai clienti già aperte e pronte per essere gustate.
Solitamente i chioschi degli ostricari erano di colore verde, giallo o nero, ma solo ai migliori veniva concesso di installare una grande insegna con il nome proprio del venditore, seguito dal titolo Ostricario Fisico o Osticario d’Europa.

Il tanto ambito titolo di Ostricario Fisico fu inventato niente poco di meno che da Ferdinando II di Borbone, Re delle due Sicilie. Si narra che il Re fosse un vero amante dei frutti di mare e che, in un giorno del 1850, recandosi al mercato di Santa Lucia, un giovane venditore gli offrì un’ostrica proveniente dal Lago Fusaro.

Ferdinando II fu talmente entusiasta del sapore del frutto che, per elogiare la bontà del prodotto, replicò al giovanotto “voi siete un ostricario fisico!”.
Probabilmente ciò che ispirò il Re nell’attribuire quest’appellativo fu il titolo di Dottor Fisico, dato solo ai medici che riuscivano a distinguersi negli studi di medicina e ricerca.

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Antichi mestieri di Napoli. ‘O zarellaro: dove potevi comprare di tutto

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Oggigiorno quando abbiamo la necessità di acquistare un particolare prodotto siamo soliti andare in punti vendita specializzati. Un tempo nella città di Napoli, esistevano delle botteghe di ridotte dimensioni, nelle quali era possibile reperire un po’ di tutto e di più.
Colui che lavorava all’interno di quest’emporio era conosciuto come ‘o zarellaro o, al femminile, ‘a zarellara, ed era il cosiddetto merciaio. Il caos e l’estremo disordine erano i tratti distintivi di questo stravagante esercizio commerciale. Non di rado, ‘o zarellaro esibiva la propria baraonda di oggetti e articoli non in un piccolo emporio, ma su un carretto ambulante.

La bottega era, al tempo stesso, una merceria, una cartoleria e, perché no, anche una sorta di parafarmacia, dove si poteva trovare di tutto: ago, cotone, bottoni, forbici, spugne, secchi, scope, “mazze p’ lava’ ‘nterra”, strofinacci, quaderni, astucci, penne e cancelleria varia, ma anche giocattoli, bambolotti, lacci per le scarpe e tutto l’occorrente per lucidarle. Senza dimenticare di altra merce come scopettini per il gabinetto, siringhe, aghi per iniezioni, ovatta, alcool, pappagalli e pale per gli allettati. Il tutto contornato da dolciumi per bambini sparsi qua e là come i lecca lecca e le caramelle.

Originariamente ‘o zarellaro vendeva solo accessori utili per effettuare piccoli aggiusti di sartoria domestica. Di fatto il mestiere in questione, nacque proprio per fornire alle donne di casa quei piccoli oggetti, chiamati per l’appunto zagarelle, di cui avevano bisogno per rattoppare o cucire i capi d’abbigliamento. Poi, con il passare degli anni, ha arricchito la sua varietà.
Proprio per il suo modo di fare commercio in maniera confusionaria, il termine zarellaro viene utilizzato ancora oggi in senso dispregiativo per indicare un soggetto privo di professionalità.

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Antichi mestieri napoletani. ‘O Cardalana: l’artigiano a domicilio

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“’O Cardalana, ‘o cardalana” – fino a trent’anni fa circa, tra le strade della città di Napoli, era questa la frase di rito urlata da un megafono montato su un’automobile.
Chi era ‘o Cardalana? E qual era la sua mansione?

‘O Cardalana, conosciuto anche come o’ materazzaro, attualmente fra le figure professionali andate in disuso, era colui che si occupava “rimettere a posto” i materassi usurati, appiattiti e poco morbidi.

‘O Cardalana, non possedendo una bottega personale, era solito essere chiamato a domicilio una volta l’anno per sistemare l’imbottitura del materasso fatto di lana o di piume o addirittura, in tempi più antichi, di foglie o di fibre vegetali.

Il lavoro veniva effettuato con l’ausilio di uno strumento chiamato scardasse – ecco perché era definito anche scardassiere – che allargava la lana e la rendeva più voluminosa e soffice.

Lo scardasse era composto da due parti chiodate, una fissa e un’altra mobile: la lana, dopo essere stata lavata e fatta asciugare, veniva adagiata sulla parte fissa e allargata con quella mobile. L’intera operazione durava qualche giorno e di certo non era un toccasana per la salute dell’artigiano dato che, battere di continuo la lana, non faceva altro che alzare un gran cumulo di polvere e peli, provocandogli una fastidiosa tosse e il “tappo al naso”.

Al materassaio toccava anche il compito di rinfilare i fiocchetti e di ricucire, da entrambi i lati, il bordo del materasso con degli aghi lunghissimi, i cosiddetti aghi saccurali.

Oggigiorno il materasso non rientra più tra i beni familiari di valore da tramandare alle generazioni future, il lavoro manuale è stato sostituito da moderni macchinari automatici che producono una gran varietà di modelli esposti in veri e propri show room del materasso.

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“’O Stagnino, ‘o Stagnino!”: chi era e cosa faceva?

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Attualmente viviamo in una società in cui rapidità e velocità la fanno da padrona, dove regna la filosofia dell’usa e getta, dove ciò che è usurato non viene riparato ma prontamente sostituito.
Un tempo non era così, si cercava di ridurre al minimo gli sprechi e risparmiare fino all’ultimo centesimo, infatti ciò che era rotto andava necessariamente aggiusto.
Proprio per questo esistevano tante figure apposite capaci di donar nuova vita agli oggetti deteriorati. Tra queste ricordiamo il mestiere dello stagnino, ma chi era costui?

Probabilmente i nostri nonni ricorderanno bene l’inconfondibile richiamo – “’O stagnino, ‘o stagnino!”- di questo particolare artigiano che si aggirava con il suo inseparabile carretto tra le vie e le strade dei paesi e delle piccole città, pronto ad assolvere ai bisogni delle famiglie.
Il compito dello stagnino era quello di riparare utensili, pentole ed altri oggetti di rame che, con il passar del tempo, s’erano ossidati, ovvero quelli che riportavano, in superficie, una patina colorata chiamata “verderame”. L’abile artigiano per eliminarla utilizzava lo stagno, il quale, essendo un elemento neutro, non rilasciava sostanze nocive ne alterava i sapori degli alimenti.

L’attrezzatura dello stagnino era sempre la stessa: una forgia, alcune pinze di diversa dimensione per afferrare le ciotole contenenti lo stagno fuso o per manipolare i pezzi arroventati sul fuoco, delle cesoie, alcuni punteruoli, martello, tenaglie, forbici e incudine.

Per effettuare una corretta stagnatura, l’artigiano doveva seguire un procedimento lungo e minuzioso che, inevitabilmente, richiedeva molta pazienza ed attenzione. Gli oggetti solitamente erano consegnati dalle donne in mattinata e riconsegnati alle stesse dall’abile saldatore in serata.

Lo stagnino, nei tempi in cui l’acqua potabile non era ancora arrivata nelle case, era impegnato nella realizzazione delle grondaie che portavano l’acqua piovana alle cisterne.
Invece coloro i quali non erano itineranti ma possedevano una bottega, erano soliti, oltre che riparare oggetti d’uso domestico, creare strumenti utili in casa, come caffettiere, imbuti, secchi e contenitori vari.

A causa del progresso tecnologico, questo mestiere è scomparso lentamente, sostituito da macchinari sempre più rapidi per la riparazione o addirittura da nuovi, nuovissimi oggetti pronti per essere usati e buttati al minimo segno di cedimento.

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‘O solachianiello: chi era e perchè si chiama così

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Tra gli antichi mestieri praticati un tempo nella città di Napoli, quello del solachianiello merita assolutamente di essere raccontato.

Facciamo chiarezza, chi era il solachianiello?

‘O solachianiello, come il termine dialettale suggerisce composto da sola, suola, e chianiella, un tipo di scarpa fatta a forma di pantofola, era colui che riparava le scarpe, un vero e proprio ciabattino che esercitava la sua professione sia a domicilio che in bottega. La sua cerchia di clienti era solitamente composta da quelle persone che, non potendo permettersi l’acquisto di un nuovo paio di scarpe, decidevano di aggiustare, finchè possibile e in tempi rapidi, quelle usurate.
Non è quindi un caso che le vecchie botteghe dei calzolai erano note come “rapide”. Rapide perché coloro che si recavano in negozio necessitavano di una riparazione fatta ad arte e in tempi brevi per non rimanere a piedi nudi.

L’artigiano, il masto delle scarpe, utilizzava pochi e semplici strumenti, un po’ di colla, qualche semmenzella, un martelletto, un punteruolo e qualche ago.
Ciò che però rendeva questa figura unica nel genere era la fiducia che gli veniva riposta: chi si rivolgeva a lui affidava nelle sue mani un bene prezioso e indispensabile.

Questo mestiere, come tanti altri di quel tempo, è andato lentamente in disuso fino quasi a scomparire. Questo perché oggi viviamo nella società dell’uso e getta, dove ciò che è rotto o usurato viene ben presto rimpiazzato da un nuovo oggetto. Pochissime sono le botteghe che ancora sopravvivono e sono solitamente quelle tramandate di padre in figlio caratterizzate da un aspetto retrò che profuma ancora della Napoli che fu.

Fonte: Gavioli G., Salimbene M.R., Leone G., Che fatica! Un viaggio tra gli antichi mestieri

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‘O parulano: chi è e perché si chiama così in napoletano

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Il modo di fare la spesa si evolve sempre di più: le grandi catene di supermercati hanno preso in tutto il mondo il posto dei piccoli mercati locali e, fra poche decine d’anni, tutto quello di cui avremo bisogno ci verrà consegnato direttamente a casa dai droni. Fortunatamente, in luoghi come Napoli le tradizioni sono dure a morire e tutti noi siamo abituati ancora a girare fra banchi con ogni genere di alimenti, fra voci e richiami dei venditori. Fra questi troviamo il “parulano”.

In questo modo i napoletani hanno sempre apostrofato il venditore d’ortaggi o, più in generale, l’orticoltore. Talvolta, “parulano” viene usato anche per definire qualcuno che manifesta un linguaggio scurrile o modi rozzi, associando ingiustamente simili atteggiamenti a quelli di persone provenienti dalla campagna. In realtà, il termine è antichissimo ed al giorno d’oggi è abbastanza desueto.

La sua stessa origine è antichissima, come confermano anche gli studi di Raffaele Bracale. Deriverebbe, infatti, da “parula”, una trasposizione del latino “paludem” (palude). I romani trasformarono gran parte delle zone paludose intorno alle città in campi coltivati e, quindi, per loro quelli che portavano prodotti ortofrutticoli in città erano gli abitanti delle (ex) paludi. Una denominazione che si è tramandata nella nostra lingua fino ad oggi.

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‘O latrenaro, un antico mestiere napoletano: chi era e cosa faceva?

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Oggigiorno siamo così assuefatti dai comfort da darli quasi per scontati, come se ci fossero dovuti per diritto. Non riflettiamo sul fatto che, un tempo, per avere il privilegio di godere di ogni singola comodità, c’era qualcuno che doveva lavorare duramente.

Stiamo facendo riferimento ad un antico ed umile mestiere ormai andato in disuso, ‘o latrenaro, noto anche come spuzzacessi o spuzzalatrine.

Il lavoro del latrenaro consisteva nel ripulire, come suggerisce il nome stesso, le latrine. In particolare, bisognava svuotare i pozzi neri relativi ai gabinetti dei bagni pubblici o di quelli condominiali.

Una volta svuotato il pozzo, tutto il materiale fecale raccolto veniva in primis ammucchiato in enormi tinozze capienti, poi quest’ultime venivano poste su dei carretti. In seguito il tutto veniva venduto agli agricoltori che lo utilizzavano come concime per i loro terreni.

Una professione necessaria da un punto di vista igenico-sanitario, ma nauseabonda se si pensa ai tini puteolenti colmi di escrementi che venivano trasportati in giro per la città. Difatti il loro maleodorante passaggio era spesso accompagnato così “Sta passanne ‘o carre d’ ‘e merdajuole, appilateve ‘o naso”.

Con il passare dei decenni e con la costruzione di una rete fognaria moderna ed efficiente, tale professione è ormai scomparsa e senza alcun dubbio è una delle poche che sicuramente non ricordiamo con nostalgia.

Fonte: napoligrafia.it

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Chi era ‘o lutammaro? Il vero “eroe” delle strade di Napoli

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Spesso, quando si passeggia in determinati luoghi bisogna fare molta attenzione a non schiacciare qualche ‘ricordino’ di un amico a quattro zampe: questo a causa di padroni incivili che pur di non munirsi di palette e sacchetti ricoprono le strade di escrementi. Decine di anni fa, però, non c’erano regole che imponevano queste cose ai proprietari di animali, eppure le strade restavano quasi sempre pulite. Le persone erano più civili? Non in questo caso.

In silenzio, ignorato da tutti, il “lutammaro” era il vero eroe delle strade di Napoli. Questa figura professionale ormai scomparsa raccoglieva gli escrementi di ogni tipo, in particolare quelli che rilasciavano i cavalli delle numerose carrozze del tempo. Si occupava anche di raccogliere carcasse di animali morti o di pulire bagni pubblici e pozzi neri. Questi scarti non venivano sprecati, ma rivenduti ai contadini come concime.

Il nome “lutammaro” deriva da “lutamma”, che in napoletano significa “escrementi”. A sua volta, questo termine affonda le sue radici nel latino “lutum”, che stava ad indicare una melma maleodorante. Nonostante l’importante ed utile lavoro, il “lutammaro” veniva spesso disprezzato ed allontanato a causa delle sostanze con cui aveva a che fare. Ancora oggi si usa il termine “lota”, derivante da “lutammaro”, per offendere gravemente qualcuno.

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‘O Casadduoglio: perché il salumiere a Napoli si chiamava così?

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Napoli – Viviamo ormai nell’era delle grandi catene di supermercati dove è possibile trovare tutto, in qualunque momento. Fortunatamente in alcuni luoghi, come a Napoli, le persone tendono ancora a fare la spesa nei piccoli negozietti di fiducia. In particolare è la salumeria che ancora possiede il monopolio degli acquisti dei napoletani: un luogo in cui è possibile trovare tutto, dagli affettati ai formaggi, dalla pasta al pane.

Qualche anziano potrebbe ancora oggi chiamare il salumiere “casaduoglio” o “casadduoglio”. Questo termine antichissimo risale a quando questo esercizio commerciale era l’unico posto in cui comprare viveri diversi da frutta e verdure: il casaduoglio vendeva formaggi, salumi, olio e pasta, come le salumerie moderne, ma anche saponi, detersivi ed oggetti di uso domestico.

Il nome stesso nasce dall’unione dei due prodotti tipici: il “caso”, dal latino “caseum” (formaggio), e l’uoglio, dal latino “oleum” (olio). Non esiste differenza fra “casaduoglio” e “casadduoglio”. Il raddoppiamento della “d” è probabilmente arrivato nell’uso popolare del termine, ma la forma più corretta è senza dubbio quella senza doppia.

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Addio a Zi’ Tonino, l’ultimo sciuscià di Napoli: un mestiere antico 70 anni

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Foto di Gianni Simioli

Questa volta è vero: è morto l’ultimo sciuscià di Napoli, Antonio Vespa, per tutti Zi’ Tonino. Si è spento ieri alle 10.30 a casa sua all’età di 69 anni. La città perde un’altra icona, un simbolo, la storia di un mestiere, quello del lustrascarpe che come tanti è scomparso.

Foto di Gianni Simioli

Zi’ Tonino svolgeva la sua attività da sempre per le strade di via Toledo, con grande passione e con un bel sorriso. Si dice addio, così, non solo all’uomo ma anche ad un’intera professione che ha radici profonde nella storia di Napoli.

Il termine “sciuscià” deriva probabilmente dalla deformazione in dialetto napoletano del termine inglese shoeshine che stava ad indicare il mestiere del lustrascarpe. Nacque durante la seconda guerra mondiale ed era molto diffuso come termine tra gli scugnizzi napoletani (oggi è in disuso). Fu poi reso ancor più celebre dal omonimo film di Vittorio De Sica.

Durante l’occupazione degli americani erano gli scugnizzi, i giovani bambini napoletani, a lustrare le scarpe dei passanti e dei soldati. Il guadagno non era alto, giusto qualche lira per potersi permettere di comprare da mangiare. Zi’ Tonino svolgeva il mestiere di sciuscià con grande dedizione e, anche se può sembrare strano, tanti erano i suoi clienti. Anche nel suo caso il guadagno non era altissimo.

Ha raccontato di aver lustrato le scarpe di Totò, di Gina Lollobrigida fino a personaggi più recenti quali Berlusconi. Con Antonio Vespa muore l’ultimo sciuscià di Napoli e si chiude un’epoca fatta di antichi mestieri poveri ma svolti con tanto amore e passione.

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Antichi mestieri napoletani. `O Scistajuolo: chi era e cosa faceva

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Probabilmente le vostre mamme non lo ricordano, le vostre nonne sì. Ed è bello ogni tanto rispolverare un po’ di sana tradizione napoletana e fare un tuffo nel folklore di un passato che era semplice e sapeva di buono. Oggi, infatti, vi parliamo di un antico mestiere, purtroppo scomparso da tempo come molti altri lavori “inventati” dal nulla ma capaci di dare dignità e pane a tavola a tanta gente.

Parliamo de “‘O Scistajuolo”, venditore di petrolio (detto scisto o cisto), che veniva utilizzato soprattutto per le lampade, sostituendosi all’olio per questa funzione, ma anche per lucidare i pavimenti delle case dei nobili, o addirittura come tintura per capelli.

Quando cominciò a diffondersi, questo nuovo prodotto non fu accolto bene dai consumatori, che lamentavano il cattivo odore rispetto all’olio usato fino a quel momento.

Per questo motivo, il termine “cisto” divenne sinonimo di qualcosa di cattivo, sia che si parlasse di cibo che di persone.

Putroppo, come anticipato sopra, anche questo mestiere è andato via via scomparendo. Con l’avvento dell’elettricità e di prodotti chimici più raffinati, la figura dello Scistajuolo è diventata superflua, se non in qualche raro caso in cui il petrolio veniva utilizzato per oliare le tapparelle o le serrande di case e negozi.

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‘A serengara: chi era e cosa faceva a Napoli

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Oggi è uno dei mestieri più diffusi e richiesti in Italia e all’estero, ma in passato quello dell’infermiere era un lavoro difficile e molto rischioso. La figura ha cominciato ad essere disciplinata nel nostro Paese solo dall’inizio del XX secolo, con il Regio Decreto-Legge 15 agosto 1925 n. 1832, che prevedeva che le facoltà universitarie, i comuni e le istituzioni di pubblica beneficenza e assistenza sociale, potessero istituire apposite scuole professionali dove si conseguiva un diploma di Stato per l’esercizio della professione di infermiere.

Il primo codice deontologico delle infermiere italiane venne emanato nel 1960, mentre nel 1973 le scuole per infermieri professionali divennero triennali in accordo con le indicazioni europee stabilite nel Rapporto di Strasburgo. La legge del 19 novembre 1990, n. 341, istituì per la prima volta un apposito corso di laurea in scienze infermieristiche che sancì l’ingresso della formazione universitaria quale requisito privilegiato per l’esercizio della professione di infermiere.

Questo preambolo dà l’idea dell’evoluzione che ha subito nel tempo il mestiere di infermiere prima di essere regolamentato e dotato di condizioni sicure. A Napoli è da sempre un lavoro molto richiesto e inflazionato, e in tanti, soprattutto le persone di una certa età, ricorderanno il ruolo della “serengara”, l’esperta di iniezioni.

‘A serengara, infatti, veniva ingaggiata in caso di necessità e pagata con una cifra che variava a seconda della sua bravura e del numero di interventi. Prima di procedere con l’iniezione, la serengara faceva bollire ago e siringa per disinfettarli, ma le condizioni igieniche degli strumenti, che venivano riutilizzati più volte, erano comunque molto approssimative.

Oggi il mestiere di infermiere richiede molto più tempo e titoli di studio, prima bastavano un ago, una siringa e un malato da aiutare.

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‘A nevajola: sapete cosa faceva a Napoli?

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Era un mestiere certamente insolito, ma anche molto originale. Si tratta della “nevajola“, sapete cosa faceva? La nevajola era la venditrice di neve ghiacciata, come in parte si può intuire dal nome. Il suo mestiere era collegato per lo più alla vendita dei prodotti dell’acquaiolo, nel caratteristico chioschetto detto “‘a banca ‘e ll’acqua“, soprattutto durante l’estate quando era necessario tenerli freschi o ghiacciati.

La materia prima era la neve, che veniva raccolta durante l’inverno quando cadeva copiosamente sul monte Faito o sulle pendici del Vesuvio, per poi essere ammassata in grotte sotterranee (‘e Nevere) dove ghiacciata veniva venduta in estate.

Il ghiaccio era conservato nelle ghiacciaie e immesso in grandi botticelle foderate di sughero con un vano nella parte inferiore, dove erano sistemati blocchi di ghiaccio, che rendevano l’acqua o la bibita fresca o ghiacciata, perché raffreddata dal ghiaccio.

Così, la neve ghiacciata permetteva all’acquafrescaio di rispondere così alla domanda “Acquajuò! L’acqua è fresca?”: “Manche ‘a neva”.

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‘O latrenaro, un antico mestiere napoletano: chi era e cosa faceva?

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latrenaro

Oggigiorno siamo così assuefatti dai comfort da darli quasi per scontati, come se ci fossero dovuti per diritto. Non riflettiamo sul fatto che, un tempo, per avere il privilegio di godere di ogni singola comodità, c’era qualcuno che doveva lavorare duramente.

Stiamo facendo riferimento ad un antico ed umile mestiere ormai andato in disuso, ‘o latrenaro, noto anche come spuzzacessi o spuzzalatrine.

Il lavoro del latrenaro consisteva nel ripulire, come suggerisce il nome stesso, le latrine. In particolare, bisognava svuotare i pozzi neri relativi ai gabinetti dei bagni pubblici o di quelli condominiali.

Una volta svuotato il pozzo, tutto il materiale fecale raccolto veniva in primis ammucchiato in enormi tinozze capienti, poi quest’ultime venivano poste su dei carretti. In seguito il tutto veniva venduto agli agricoltori che lo utilizzavano come concime per i loro terreni.

Una professione necessaria da un punto di vista igenico-sanitario, ma nauseabonda se si pensa ai tini puteolenti colmi di escrementi che venivano trasportati in giro per la città. Difatti il loro maleodorante passaggio era spesso accompagnato così “Sta passanne ‘o carre d’ ‘e merdajuole, appilateve ‘o naso”.

Con il passare dei decenni e con la costruzione di una rete fognaria moderna ed efficiente, tale professione è ormai scomparsa e senza alcun dubbio è una delle poche che sicuramente non ricordiamo con nostalgia.

Fonte: napoligrafia.it

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Il suonatore di pianino: sapete chi era e cosa faceva?

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Lo si sentiva girare per le strade di Napoli trainato da un cavallo, o spinto dallo stesso suonatore. Era uno dei tanti elementi che caratterizzava il folklore di Napoli, e la gente lo amava, tanto da affollarsi nei suoi pressi, acquistare le “copielle” e intonare insieme i canti. Parliamo del pianino, e del suo suonatore, che aveva il compito e il piacere di portare la musica in giro per la città.

Il pianino fu inventato nel 1700 da un modenese, Giovanni Barberi. Il cilindro del pianino, o organetto, funzionava  più o meno come il cilindro di un carillon: quando ruotava su se stesso le sue punte rialzate causavano la vibrazione di piccole leve e il movimento delle corde ad esse collegate producendo varie melodie. Il pianino fu molto utilizzato  in Italia, in Francia, in Belgio e in Olanda, ma il suo maggior successo lo ebbe a Napoli.

Il suonatore, infatti, non era considerato un questuante, anzi godeva della stima di tanti, compresi autori ed editori, che ne apprezzavano il ruolo divulgativo.

Col tempo, purtroppo, la sua azione andò scemando, lasciando sempre più posto a café-chantant, al cinema, al disco, alla radio e alla televisione.

Il declino, nello specifico, cominciò quando, nel maggio 1938, il famoso suonatore del rione Ponti Rossi, Carluccio ‘o Calamaio, inserì nel pianino una canzone dedicata a Garibaldi proprio quando Hitler era in visita in città.

Durante la seconda guerra mondiale, un incendio distrusse il deposito in Via Foria, che custodiva più di cento pianini.

Poco dopo, Raffaele Esposito Sansone, un commerciante napoletano, venne a sapere che alla periferia di Pavia un certo Fabio Bonino, svendeva 110 pianini a milleseicento lire ciascuno. Il commerciante affittò un camion e partì. Dopo più di una settimana tornò con i 110 pianini che poi riuscì a vendere a undicimila lire ciascuno.

L’ultimo suonatore di pianino a Napoli fu Ciro Pantolese, che smise all’età di 82 anni, per forza di cose, perché a Napoli non c’erano più fabbricanti di rulli, tranne Pasquale Barbuto, che però con i pochi suonatori rimasti non riusciva a sostentare la sua famiglia.

Così, quando si trasferì a Milano nel 1959, si spense definitivamente la tradizione dei pianini.

Fonte: Napolitan.it

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L’arte dei guantai della Sanità: quando Napoli era “capitale dei guanti”

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Antico atelier di Omega

Napoli – Per secoli Napoli ha rappresentato un’eccellenza nel mondo della moda e nella produzione di capi unici al mondo. Purtroppo, con l’avvento del mercato globale e della produzione industriale questo primato è andato via via affievolendosi, resistendo solo grazie ad alcuni esercizi storici famosi in tutto il mondo. Attualmente è difficile credere che Napoli possa essere definita la “capitale dei guanti”, eppure è davvero così.

Alle spalle di via Medina esiste una stradina che si chiama “via dei Guantai Nuovi” ed è una delle testimonianze evidenti di un artigianato tanto diffuso un tempo. I guantai più bravi al mondo avevano le loro botteghe a Rione Sanità: qui producevano capi raffinatissimi o di uso comune, ricevevano clienti provenienti da ogni angolo del mondo, ricchi e poveri, nobili e popolani. Nel periodo di massima espansione del fenomeno il quartiere contava oltre 25.000 artigiani.

L’arte dei guantai iniziò a diffondersi a Napoli già ai tempi del vicereame, ma furono i Borbone ad incentivare la produzione rendendola un’eccellenza. Nemmeno l’Unità d’Italia arrestò o limitò la fama dei guantai della Sanità. Fu altro a chiudere le floride botteghe: la modernità. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il mercato si ampliò e la produzione industriale andò velocemente a sostituire l’artigianato locale.

Un settore tanto specifico come quello dei guanti venne seriamente provato da un simile capovolgimento di fronte. Le botteghe chiusero una dietro l’altra. Non tutto è perduto, però: ancora oggi pochi guantai continuano a portare in alto il nome di Napoli e della Sanità. Le poche, secolari, botteghe che hanno resistito collaborano con le grandi case dell’alta moda come Vuitton e Dior. Certo, sarebbe bello sentire ancora una volta apostrofare la nostra città come “capitale dei guanti” o, addirittura, “della moda”.

Fonte:

Napoli e l’arte del fare: i percorsi dell’artigianato in “Città e Consumi”, numero 10, agosto 2010 – http://www.comune.napoli.it

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