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Channel: Antichi mestieri napoletani – Vesuvio Live
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La “fatica” dietro al corallo: la bucatrice

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Corallo

Abbiamo spesso parlato dell’importanza economica e storica della lavorazione del corallo per la città di Torre del Greco. Abbiamo raccontato i vecchi fasti della gioielleria torrese, il legame sociale che la popolazione ha sempre avuto col suo “oro rosso” e di come artigiani e istituzioni stiano lentamente privando la città di questo primato unico.

Il corallo, però, non ha portato a Torre del Greco solo mostre, vetrine ed enormi ricchezze, ma ha rappresentato, e rappresenta in misura ridotta anche oggi, un mezzo di sostentamento per moltissime persone ben più umili.

BUCATRICE

Gioielli, statue e cammei sono, infatti, il frutto di numerosi processi di lavorazione ripetitivi e faticosi, considerando anche che non esistono macchinari per sostituire il lavoro manuale. Oggi, come decenni fa, questi lavori vengono svolti da piccoli artigiani nelle loro case per una retribuzione minima.

Il video, tratto da un servizio di Rai1 di più di vent’anni fa, ci mostra una di questi piccoli lavoratori, un’anziana e vivace signora, addetta alla fase di “foratura del corallo”.

La foratura, detta anche bucatura, viene eseguita sui pezzi di corallo destinati a diventare pallini per collane. I cilindretti grezzi vengono bucati per lo più con uno strumento antico detto fuso: si tratta di un archetto in legno munito del classico filo di spago in tensione e agganciato a un ago. Mediante la pressione esercitata dalla mano della bucatrice sull’arco, viene fatto ruotare vorticosamente il fuso e l’ago che questo porta, poggiato sul cilindro di corallo, lo buca da parte a parte, con l’aiuto di acqua , che cadendo sul corallo goccia a goccia, ne attenua il calore che si determina durante la bucatura e che potrebbe spezzarlo.

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‘O scupatore: chillo ca pulezzava Napule

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'o scupatorePasseggiando per strada, qualche volta sarà capitato a tutti di incontrare quello che oggi in tempi moderni è definito ‘operatore ecologico’, più comunemente conosciuto come spazzino, ma noi amanti degli antichi mestieri napoletani, vogliamo andare alle origini, chi era lo spazzino nella Napoli di un tempo?

Tipico lavoro destinato a persone di basso ceto sociale, lo spazzino a Napoli era ‘o scupatore. Il termine, derivava dal nome della grande scopa che veniva utilizzata per pulire strade e vicoli della città. Nessuna macchina e nessun mezzo comodo, solo scopa, braccia volenterose e tanto amore per la propria città, queste le caratteristiche del bravo netturbino, colui che ripuliva Napoli per farla tornare a splendere ogni giorno. Un mestiere che esiste oggi e che c’è da sempre, atto a testimoniare la profonda volontà di mantenere Napoli pulita e bella, proprio così come ci è stata regalata. ‘O scupatore, oltre ad essere uno dei tanti mestieri già presenti nell’antichità è stato anche fonte d’ispirazione per alcune poesie, tra le tante, anche una di Raffaele Viviani , intitolata appunto ‘O scupatore, da cui abbiamo deciso di prendere in prestito alcuni versi:

“È nu brutto mestiere, ‘o scupatore!
E i’ v’ ‘o dico cu tutta l’esattezza,
pecché ce songo nato ‘int’ ‘a munnezza;
e tengo competenza e serietà.
Sulo na cosa sta ‘int’ ‘a classa nosta:
ca tu nun truove nu privileggiato.
Nuje simmo tutte uguale, uno cu n’ato,
cu ‘a stessa scopa ‘mmano pe’ scupa’.”

Queste le parole utilizzate dal poeta, parole semplici e forti, che raccontano la vita vera, spesso fatta anche di lavori dignitosi ma non sempre amati. Il tempo ha cambiato le cose, l’evoluzione sociale ha rivisto le posizioni lavorative e da ‘scupatore’ o spazzino ad operatore ecologico, adesso c’è una bella differenza, più macchinari e meno fatica, ma Napoli forse ricorda con nostalgia i tempi in cui a curarla era un essere umano e non una fredda macchina idropulitrice.

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Chi era ‘a lavannara? Un salto nel passato per conoscere il mestiere

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'A lavannara

Tra le molte figure che in passato hanno rappresentato veri  e propri mestieri e con l’arrivo dei tempi moderni sono svanite, ritroviamo la lavandaia, la donna che tra gli antichi mestieri napoletani, prendeva il nome di ‘a lavannara.

Questa donna era solita girare per le case, per raccogliere abiti sporchi che successivamente avrebbe lavato con cenere e sapone ed un metodo personale e segreto per sbiancare e smacchiare gli indumenti, metodo che ognuna riteneva migliore degli altri e custodiva gelosamente.

Inizialmente dopo aver raccolto gli abiti, ‘a lavannara si recava alla torrente o a qualche fontana dove provvedeva a lavare i vestiti ma poi col passare del tempo, il lavoro iniziò ad essere svolto direttamente a casa del cliente. L’operazione per la pulizia della biancheria durava due giorni, durante il primo i vestiti venivano lavati e lasciati a mollo con soda e cenere nell’acqua calda, mentre il secondo giorno era dedicato alla “culata”, ovvero si provvedeva a stendere gli abiti per lasciarli asciugare.

In un’epoca in cui non esistevano le lavatrici, il ruolo della “lavannara” era fondamentale e ampiamente apprezzato per il risparmi di tempo e lavoro ma sopratutto per le doti dovute al lavaggio impeccabile dei capi.

La modernità e l’arrivo delle lavatrici ovviamente hanno sostituito questa figura che ad oggi solo in parte potremmo indirizzare alle collaboratrici delle lavanderie moderne.

 

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La lavorazione del corallo a Torre del Greco ebbe inizio con una storia d’amore

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corallo_rosso

Corallo

Il fatto che la storia di Torre del Greco sia legata all’amore per il corallo è cosa nota, ma forse non tutti sanno che fu una storia d’amore ad influenzarne il destino.

Il corallo, per la nostra città, ha rappresentato da sempre più di quanto si pensi. Il corallo per Torre è stato ricchezza, ma ancor prima sudore della fronte e mezzo per far fronte alla miseria.

I Torresi  però, in origine, il corallo sapevano solo pescarlo, perciò quando un certo Paolo Bartolomeo Martin sbarcò nel nostro porto, fu una vera manna dal cielo.

L’intraprendente Paolo Bartolomeo Martin era partito da Marsiglia, con le sue origini genovesi, lasciandosi dietro un forte declino della lavorazione del corallo, causato dalla rivoluzione francese. Dotato di un’inquieta personalità e di innate abilità nell’incidere cammei, il Marsigliese, così chiamato dalla gente del porto, una volta arrivato nella città torrese, non ci mise molto a capirne il grosso potenziale commerciale. Alle sue capacità, i Torresi devono la nascita del primo laboratorio per la lavorazione dei cammei in corallo e su conchiglia.

Il Marsigliese, però, profondamente preso dalle sue mire imprenditoriali, non aveva calcolato un imprevisto: l’amore.

“Galeotto fu il rametto e chi lo pescò”, se così si può dire.

Coralline Torresi anni '20

Coralline Torresi anni ’20

Fu in una giornata come le altre, mentre si trovava nel porto della nostra città a contrattare su una vendita di corallo, che lo sguardo del nostro Martin si posò sulla bellissima sorella di un pescatore. Ne rimase letteralmente incantato. Complici il sole, il luccichio del mare o, forse, la componente magica di quei rametti rossi e grezzi, per il Marsigliese non ci fu più scampo. E amore fu!

Paolo Bartolomeo Martin, allora, decise di stabilirsi definitivamente a Torre del Greco e, nel 1805 chiese al Governo Borbonico il permesso per avviare la lavorazione del corallo nella nostra città.

Ecco come una storia d’amore abbia influenzato il destino della nostra città che, da allora, ha potuto trasformarsi da molo di pescatori a capitale mondiale degli artisti dell’oro rosso.

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‘O nucellaro: ‘o spass ‘e nucelle, cicere e fave ad ogni angolo di strada

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'o nucellaro

Molto spesso, nella vita di tutti i giorni, incontriamo figure che rappresentano veri e propri mestieri che hanno alle proprie spalle anni di esperienza, sono quelli che appartengono alla stirpe degli antichi mestieri napoletani, ma che ancora oggi resistono rispetto agli altri.

Passeggiando per strada, sarà capitato a chiunque di incontrare venditori di noccioline, tostate o zuccherate, ma come nasce questo mestiere?

Molti anni fa, chi vendeva noccioline per strada veniva chiamato ‘o nucellaro, o meglio ‘a nucellara, dal momento che molto spesso questo mestiere era portato avanti da donne, le quali da venditrici ambulanti, si recavano di sera nelle osterie per vendere i propri prodotti.

Col passare del tempo, ‘o nucellaro, ampliò la vendita dei prodotti inserendo oltre alle nocciole anche il commercio di fave, noci e mandorle, conservate nei vari scomparti del carretto che il venditore posizionava agli angoli delle strade. Noci e nocciole, quando venivano cotte sotto la cenere, erano chiamate ‘e ciocele.

I clienti solitamente venivano richiamati dalla voce che o’ nucellaro lanciava: “Spassateve ‘o tiempe! Nucelle ‘nfurnate, cicere, fave e semmiente ‘nfurnate, accattate!”

Con questa voce, il venditore di nocciole, noci e fave, attirava le persone, invitandoli ad acquistare i prodotti freschi e appena sfornati, regalando un momento di gusto vivace e sfizioso, un po’ come faceva ‘o castagnaro.

Ancora oggi a qualche angolo di strada o in piccolissime botteghe, si ripete il mestiere che invoglia l’abitudine particolarmente partenopea, detta molte volte ‘o spass, di sgranocchiare frutta secca.

‘O nucellaro, si può quindi considerare un mestiere con origini antiche, che ancora oggi si propone alla società.

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Dalla storia alla leggenda, gli antichi mestieri di Casoria

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antichi mestieriÈ un fatto curioso tornare indietro nel passato della propria città, riscoprirne i culti e le antiche professioni che probabilmente arricchivano le famiglie delle cittadine del Napoletano. In particolare a Casoria, erano presenti alcuni lavori estranei invece alla tradizione napoletana, o meglio della Napoli centrale. Così, proprio in questo piccolo comune, come in molti altri centri periferici alla capitale partenopea, anticamente, stiamo parlando del Medioevo, sopravvivevano arti e mestieri, che poi, si racconta, si sono tramandati anche negli anni a venire, fino a scomparire con l’inizio del ‘900. Una tra le “fatiche” da annoverare, era quella degli “acconciatori di vino guasto”: il nome della professione svolta da questi esperti è già tutto un programma, e il loro servizi erano pure molto richiesti. Altro impiego da evidenziare era svolto dai “Cacciavino de Casoria”, cioè coloro che coltivavano la canapa da cui si ricavano “cannovacci”, ossia tele di canapa grossa e ruvida utilizzate per normali usi domestici. Casoria poi, da sottolineare fino agli anni ’30, era una cittadina famosa per la coltivazione delle mele, di cui vaste coltivazioni erano presenti presso la zona ferrovia e Sacro Cuore frutti che poi sarebbero stati esportati in tutto il regno. Non a caso il nome Casoria, deriva da “Casa Aurea”, o meglio zona molto ricca e florida, e terreno adatto alle coltivazioni.

Per leggere una lista degli antichi mestieri di Napoli e dintorni, clicca qui.

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Chi è ‘a capera? Tutti gli intrecci rosa delle donne napoletane

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'a capera

Sembri proprio una capera!. Quante volte lo abbiamo sentito dire, specialmente alle nonne o alle persone anziane? Ma chi è ‘a capera?

Per le donne napoletane, già agli inizi dell’ 800, avere una chioma ordinata e ben pettinata, era una cosa basilare per il proprio aspetto. Vanitose e appariscenti, tutte volevano apparire impeccabili, specialmente per le occasioni importanti, senza mai sfigurare.

Oggi per noi è normale pensare di entrare in un qualsiasi salone di bellezza, per chiedere al parrucchiere un’acconciatura o un particolare taglio, ma anticamente, per le donne funzionava diversamente.

‘A capera, era quella figura che noi oggi identifichiamo nella parrucchiera a domicilio. Si recava nelle case delle donne che richiedevano il suo intervento e con notevole maestria intrecciava, avvolgeva, arricciava e tagliava i capelli delle clienti, soddisfacendo in ogni modo i loro desideri.

Pensando alla sua figura, è inevitabile non chiedersi, come faceva ad ottenere un’ottima  piega senza l’utilizzo dei modernissimi apparecchi per parrucchieri. Il bello sta proprio in questo, nella semplicità dei suoi utensili, quali mollette, forcine di osso e di tartaruga e particolari pinze che una volta scaldate, potevano essere utilizzate per lisciare o arricciare i capelli, anticipando di molti anni la venuta delle moderne piastre per capelli.

La frase citata inizialmente “sembri proprio una capera“, non si riferisce però a quello che oggi definiamo uno degli antichi mestieri napoletani, ma fa riferimento alla consueta abitudine della capera, di riportare fatti e confessioni delle altre clienti a cui precedentemente aveva prestato servizio, creando così una fitta rete di pettegolezzi “rosa”.

Oggi molte donne, dal parrucchiere per ingannare il tempo, leggono riviste di gossip, ma quante preferirebbero una ricca chiacchierata che racconta i pettegolezzi di quartiere?

Cara capera, quanto ci manchi!

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Nella botte piccola c’è…‘o fecciajuolo! Ma chi è questo signore?

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Botte

Più volte, parlando del popolo napoletano, abbiamo ricordato la straordinaria “arte di arrangiarsi”, che molto spesso ha salvato gli stessi napoletani dalla disoccupazione avvilente.

L’arte di arrangiarsi è qualcosa che nasce principalmente dalla buona volontà, dalla voglia di non restare a guardare e di non lasciare che gli avvenimenti negativi impediscano una vita dignitosa. Anticamente, molti napoletani, hanno fatto della fantasia e dell’inventiva dei veri e propri lavori, ma in altri casi, hanno semplicemente dovuto piegarsi a fare quello che occorreva, pur di guadagnarsi il pane da portare a tavola.

Tra gli antichi mestieri napoletani, che fanno leva proprio su questi principi, ecco ‘o fecciajuolo, colui che dopo l’utilizzo dei fusti di vino, provvedeva alla pulizia.

Per ‘o fecciajuolo, il lavoro consisteva nell’infilarsi completamente nei grandi contenitori per eliminare tutti i residui delle incrostazioni lasciate dal vino, facendo ritornare i fusti completamente puliti.

Ovviamente col passare del tempo, questa figura è scomparsa totalmente, sostituita da macchinari appositi per la pulizia dei recipienti con una grande per il tessuto sociale e lavorativo di Napoli.

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Presente e ricercata nel quartiere: ‘a vammana. Ecco chi è…

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'a vammana

Chiacchierare con le nonne è sempre un’esperienza che arricchisce il nostro bagaglio culturale con tutte le nozioni che amano trasmetterci tramite i loro racconti. Spesso sembra proprio di fare un vero e proprio salto nel passato e di vivere così come hanno vissuto loro, di vedere il mondo con i loro occhi che sembrano conservare sempre gelosamente i ricordi più belli.

Sono proprio gli anziani la vera ricchezza della vita, con loro si imparano cose che sui libri non si troveranno mai, e infatti molto spesso, chiacchierando con le nonne, ci vorrebbe un quaderno per appuntare tutto, come per creare una vera e propria raccolta, un’enciclopedia in grado di raccontare il passato.

Un’altra figura che faceva parte degli antichi mestieri napoletani, è quella di una donna con un ruolo molto importante, che tutte le nonne appartenenti alla Napoli antica hanno sicuramente incontrato almeno una volta, ‘a vammana, colei che a quei tempi svolgeva tutte le mansioni dell’attuale ostetrica o del ginecologo.

A quei tempi, le donne partorienti, non venivano ricoverate in ospedali o cliniche, ma venivano aiutate in casa a partorire appunto dalla vammana, chiamata anche ‘a levatrice. A lei spettava il compito di visitare le donne gravide e di aiutarle a partorire, evitando eventuali complicazioni e portando alla luce nuove vite. Solitamente ‘a vammana era una vera e propria figura di quartiere, una donna a cui affidare se stessi e indirettamente anche la vita dei propri figli che sarebbero venuti successivamente alla luce, a lei  si rivolgevano le donne in dolce attesa per chiedere aiuto in campo ginecologico ma non solo, molto spesso ‘a vammana era chiamata in causa anche in vesti di consigliera.

Con il passare del tempo la figura della levatrice, non è completamente scomparsa, bensì si è evoluta con il ruolo dell’ostetrica e del ginecologo, che però svolgono il proprio mestiere all’interno di cliniche private o ospedali. Al giorno d’oggi prevedere che un parto avvenga tra le mura domestiche è quasi impossibile specialmente perché si ritiene opportuno essere pronti a poter coprire qualsiasi esigenza improvvisa.

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Un antico mestiere: il mulattiere

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mulattiere
Il mestiere del mulattiere, ricordato tutt’oggi tra i paesi del napoletano soprattutto in Melito di Napoli, rappresentava tra i tanti delle classi “non proprio ricche”, probabilmente quello più redditizio. Cosa fondamentale, ovvio, era la cura che si aveva del proprio animale: il mulo, strumento indispensabile per intraprendere la “professione” era costantemente curato e ben mantenuto, veniva pulito e adornato per renderlo piacevole agli occhi dei passanti ed era ben nutrito per evitare che sentisse troppo la fatica del suo compito.

I denti dell’animale per impedirgli infezioni che ne ostruissero l’approvvigionamento, erano tenuti quanto meglio si potesse riuscire. In generale il rapporto tra il mestierante e il suo “animale sostegno” era sempre molto forte, tanto che ognuno rappresentava la forza dell’ altro.

Molti mulattieri trascorrevano anche mesi nei boschi durante il periodo del taglio degli alberi per ricavarne la legna: carovane trainate da muli muovevano dal sentiero già alle tre del mattino, e trasportavano la materia per il camino, utile per affrontare l’ inverno, nel paese più vicino. Il mulo era dunque un’arma necessaria al sostentamento umano e il mulattiere era in genere un uomo stimato cui venivano assegnate cariche pregiate.

Alcuni tra loro avevano in gestione i forni a legna del paese che servivano per la cottura del pane quotidiano; ciò comportava l’ alto onere di dovere garantire l’approvvigionamento quotidiano, consistente in almeno 8 o 10 fasci di legna e fascine; i lavoratori venivano ripagati non in denaro, ma in natura, con forme di pane per la famiglia.

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‘O lampiunaro: la luce per le strade di Napoli…

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'o lampiunaro

Conoscere quello che è appartenuto alla storia è un bagaglio importantissimo per comprendere molti usi e costumi della società in cui viviamo. E’ sempre bello perdersi nei racconti dei tempi antichi, specialmente per noi napoletani che amiamo imparare la storia tramite i ricordi dei nostri parenti, che soddisfano la curiosità più di qualsiasi libro.

Più volte, riferendoci al “napoletano”, abbiamo sottolineato che non si tratta di un dialetto, ma di una vera e propria lingua, e come tale necessita di studi approfonditi per comprendere alcuni significati, molti dei quali potrebbero indicare cose o persone che ancora oggi nel quotidiano incontriamo ma che identifichiamo con nomi diversi. Attraverso il nostro viaggio tra gli antichi mestieri napoletani, proviamo volta per volta a ripercorrere tutti quei mestieri nati nella Napoli antica e che oggi sono scomparsi o si sono modernizzati.

Tante volte sentir nominare alcune figure, ci fa viaggiare con la fantasia, perché non sempre la radice della parola rispecchia il significato, ma nel caso del mestiere scelto questa volta, il significato è abbastanza intuitivo, si tratta dell’uomo che anticamente veniva chiamato ‘o lampiunaro.

Anticamente, quando passeggiare per strada significava farsi accarezzare non solo dal chiaro di luna, ma anche dalla luce dolce e tremolante di una fiamma e non da un’artificiale illuminazione forte, ‘o lampiunaro aveva un compito preciso, quello di accendere i lampioni e le luci a gas per strada e di spegnerle con l’arrivo dell’alba. Il suo mestiere veniva svolto col fedele accompagnamento dei sui utensili da lavoro: un’asta lunga con all’estremità una fiammella che dava vita alle luci in strada, e ‘o stutale, ovvero l’asta con un cono capovolto in cima, con cui spegneva alla’alba le fiammelle all’interno dei lampioni.

L’avvento dell’energia elettrica, ha reso totalmente inutile il lavoro svolto e così ‘o lampiunaro, da lavoro essenziale, è diventato solo un antico mestiere ricordato nei racconti nostalgici dei nonni.

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‘O pannazzaro offriva un servizio molto utile e speciale: ecco chi era

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Mestieri napoletani antichi, 'o pannazzaro

Avete mai visto il film di Luigi Comencini Pane, amore e fantasia, con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida? C’è un personaggio che si chiama don Vincenzino, interpretato da Nino Vingelli, è di Sorrento come il donnaiuolo maresciallo Antonio Carotenuto e di professione fa ‘o pannazzaro, ossia il venditore ambulante di panni, figura diffusa nell’ambito napoletano così come nell’intero Mezzogiorno.

Il pannazzaro, mestiere un tempo molto più diffuso di adesso, era un uomo che andava in giro per le strade delle città o dei paesi recando con sé la propria merce, che poteva consistere in semplici stracci o anche vestiti, biancheria, lenzuola, coperte, asciugamani, stoffe più o meno pregiate, tutto a seconda del “tipo” di pannazzaro, cioè a seconda delle sue stesse condizioni economiche: un venditore più benestante poteva vendere merce migliore a clienti che potevano spendere di più, per spostarsi usava mezzi a motore, mentre quelli che si arrangiavano camminavano a piedi trasportando i panni in un grosso lenzuolo annodato o, se era di livello, possiamo dire, intermedio, poteva disporre di un asino o di un mulo.

Al pannazzaro si poteva pagare la merce tutta e subito, ma il servizio migliore e più ricercato che offriva era quello di poter pagare la merce acquistata a rate, settimanali o mensili, in modo tale da poter spalmare nel tempo spese che altrimenti non si potevano sostenere, quali ad esempio quelle per il corredo nuziale delle ragazze, una collezione che i genitori di queste cominciavano a predisporre sin dalla loro più tenera età. Non dimentichiamo, infatti, che le donne fino ad alcuni decenni or sono si maritavano molto presto, e la preparazione di un buon corredo necessitava di un certo numero di anni. I prezzi di solito erano patteggiati, così come la somma della rata da corrispondere di volta in volta, anche se in linea generale ogni pannazzaro aveva un proprio cachet, come detto, settimanale o mensile.

Successivamente, con il boom economico, il pannazzaro ha cominciato a girare in automobile e molti hanno aperto un negozio, approfittando sia una maggiore disponibilità di denaro propria e degli acquirenti, sia dello sviluppo urbano di centri piccoli e grandi, sopravvivendo solo in determinate zone o in casi sporadici, come ai giorni nostri. Con la maggiore emancipazione delle donne, inoltre, anche a queste ultime si è “aperta la professione”, le pannazzare sono diventate parte integrante della vita familiare, poiché a differenza degli uomini, secondo le regole del buon costume, queste potevano entrare nelle case nonostante l’assenza del padre di famiglia, e allora si fermavano a chiacchierare e prendere una tazzina di caffè.

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L’antico re dei finimenti: ‘O guarnamentare

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Guarnamentare

Da un po’ di tempo ormai, noi di Vesuvio Live, viaggiamo nel passato per ripercorrere quelli che sono gli antichi mestieri napoletani, alcuni sono tutt’oggi praticati, altri di uso frequente nei tempi antichi oggi sono completamente scomparsi, ed altri ancora hanno fatto proprio la storia di Napoli, ma tutti in un modo o nell’altro, resteranno memorabili.
Oggi il nostro viaggio bussa alla bottega di un altro uomo, ‘o guarnamentare. Chi era?

Anticamente, prima che le automobili venissero inventate, o comunque destinate alla maggior parte della popolazione, ogni mezzo di trasporto era trainato dai cavalli. A tal proposito, tutto quello che era legato al cavallo e al suo utilizzo, rappresentava un determinato mestiere. In questo caso, ‘o guarnamentare, nome che deriva dal termine napoletano “guarnamiente” con cui si indicano tutti gli accessori indossati dai cavalli, come staffe, redini, sella e quant’altro,  era il sellaio, cioè colui che produceva le selle, ma anche il resto di tutti i finimenti.

‘O guarnamentare, oltre ad essere abilissimo nella lavorazione delle pelli, era anche particolarmente capace in quella del metallo, che molto spesso utilizzava per decorare le selle con borchie o particolari abbellimenti in ottone e ferro.
Anticamente una sella personalizzata identificava il ceto sociale dei proprietari del cavallo, per cui una sella più elaborato e con fregi particolari, era simbolo di famiglie facoltose e nobili.

Gli utensili da lavoro che ‘o guarnaamentare utilizzava, erano cere per lucidare le morse, trincetti, martelli, pinze e la lesina, impiegata per forare le pelli e prepararle alla cucitura.
Ovviamente questo antico mestiere si è completamente estinto, ma se in giro qualcuno ancora conserva delle selle o altri finimenti originali dell’epoca antica, noterà la differenza con quelli moderni, una differenza abissale e forse un briciolo di invidia per l’eccelsa bravura degli antichi artigiani prenderà il sopravvento.

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Chiagne sempre ‘a scapillata: storia di un mestiere tutto partenopeo

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'A SCAPILLATA

“Addolorata, affranta, dispiaciuta, costernata assai! E chi la immaginava una notizia simile, chillo ‘o cumpare steve bbuono!” Avete letto? Bene ora provate ad immaginare questa stessa frase, detta con un certo tono di lamento e dolore che fa da sottofondo. Non è uno scherzo, o la scena di un film, bensì il lavoro di professioniste che con quelle frasi portavano soldi a casa.

Queste professioniste avevano il nome di ‘e scapillate. Anticamente, quando in una famiglia veniva a mancare una persona cara, che purtroppo non vantava troppe conoscenze o larghi giri di parentela, per non sfigurare nei confronti di quanti andavano a dare l’estremo saluto al defunto, si affittavano delle comparse che al capezzale della salma e successivamente al corteo funebre, mostravano dolore e disperazione per la perdita della persona in questione.

A molti, da piccoli,  sarò capitato che quando per un capriccio si iniziava a piangere, la nonna era subito pronta a dire “Mi par proprio ‘a chiagnazzara”. ‘A chiagnazzara? Chi è? Con la parola “chiagnazzara”, si  faceva riferimento in modo un po’ più “grossolano e dialettale” a quello che oggi rientra di diritto tra quelli che sono gli antichi mestieri napoletani, ovvero ‘a scapillata.La particolarità di queste donne rientrava nella capacità di riuscire a mostrare un dolore talmente profondo e struggente da apparire quasi reale agli occhi di quanti presenziavano al corteo funebre.

Con il tempo anche questo antico mestiere è svanito, ma tutt’oggi ad ogni corteo funebre, si verificano situazioni altrettanto “divertenti”: alle prime file, immediatamente dopo il defunto c’è chi soffre per la perdita della persona cara, al centro c’è chi finge dispiacere ma in realtà gode della scomparsa, e alla fine, le ultime persone della fila, sono quelle che si sono trovate li per caso e hanno approfittato della folla per fare una passeggiata e parlare dei fatti propri.

Insomma scapillate o  meno, la situazione non cambia, purtroppo oggi, come all’epoca dei nostri nonni, vale sempre ed ancora lo stesso infallibile detto.” ‘O guaio è di chi more, chi resta s’acconcia sempre”.

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Fortunato, il tarallaro che ispirò Pino Daniele

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Fortunato

Fortunato

I taralli ‘nzogna e pepe sono una delle ricette più caratteristiche di Napoli. Una prelibatezza senza tempo, povera, veloce e fin troppo comoda da mangiare, che tutt’oggi non può mancare come accompagnamento di un abbondante antipasto o di un aperitivo fra amici. Come spesso succede nella nostra terra, determinate tradizioni, specialmente se culinarie, sono legate a personaggi unici, divenuti per il loro carattere, il simbolo della tradizione stessa. Moltissime pietanze napoletane, si sa, venivano spesso vendute da ambulanti che percorrevano i vicoli stretti con i loro carretti, lo stesso caffè si diffuse in questo modo e ovviamente i pratici taralli, che si prestano così facilmente ad essere mangiati per strada, non erano da meno.

Taralli napoletani

I “tarallari” giravano per Napoli con i carretti carichi di taralli tenuti al caldo, vendendoli ai ragazzi che bazzicavano per le strade o alle casalinghe che prontamente calavano il paniere al loro passaggio. Fortunato era l’ultimo, mitico esponente della lunga tradizione di questi venditori e, fino alla fine degli anni ’80, quando ormai era diventato troppo vecchio e malato per continuare a lavorare, la sua voce riecheggiava in tutti i quartieri e, da sola, bastava a far venire l’acquolina in bocca.

Andava in giro con un semplice passeggino in cui raccoglieva le sue “creature”, sempre coperte da un drappo di lana per rimanere calde e pronte da gustare; avanti al mezzo di fortuna un cartello “LA DITTA FORTUNATO RESTA CHIUSO IL LUNEDì”. Fortunato davvero era una vera e propria ditta racchiusa in una sola persona: lui cucinava i taralli, lui li metteva in commercio e lui li pubblicizzava urlando “Fortunato tene a rrobba bella! ‘Nzogna ‘nzogn”. Una frase ormai diventata storia che ha persino ispirato Pino Daniele a scrivere una canzone dal titolo “Fortunato”. L’ultimo baluardo di un modo di vendere e mangiare diverso, un uomo sempre sorridente che ricordava a memoria i nomi delle sue affezionate clienti, che chiamava per farle affacciare, che mostrava tutto l’amore per la sua “ditta”, nascondendo la fatica degli anni, il peso del passeggino carico e di una vita sacrificata per diffondere i suoi unici taralli.

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‘O pisciavinnolo, l’anima dei vicoli di Napoli: scopriamo questo mestiere

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pescivendolo

Secondo la tradizione presepiale napoletana “‘o pisciavinnolo” (il pescivendolo), è un “pastore” (inteso come componente, appunto, del Presepe) essenziale per la sacralità della raffigurazione: il pesce, nel simbolismo cristiano, raffigura da sempre Gesù. Per questo le figure che portano pesci nel presepe, il pescivendolo, appunto, ed il pescatore, rappresentano l’avvento di Cristo e la rinascita della vita in generale. Inoltre la statuina rappresenta anche il mese di dicembre, quando è più frenetica e necessaria l’attività dei pescivendoli data l’opulenza dei banchetti festivi a base di prodotti ittici.

Effettivamente, già a partire dalla fine di novembre, i vicoli ed i mercati di Napoli si illuminano anche fino a tarda notte con le luci delle bancarelle di questi venditori, da sempre a metà strada fra l’essere ambulanti o negozianti. I primi pescivendoli della storia non erano altro che pescatori che, dopo la battuta in mare, giravano per le strade vendendo i frutti del loro lavoro: solo alcuni potevano disporre di veri e propri banchi su cui mettere in mostra la merce. Una tradizione antica quanto è antica la storia dell’uomo, che affonda le radici nel momento in cui la nostra razza comprese i modi migliori di procurarsi cibo. Ancora oggi, come all’epoca dei Fenici o dei Greci, possiamo vedere girare per le strade di Napoli pescatori che, con grossi secchi, vendono quanto hanno ottenuto nel corso di una notte in mare.

Questi sono rimasugli di un’epoca passata, di un periodo in cui qualche urlo nei vicoli faceva affacciare casalinghe pronte a calare il “paniere” per fare la spesa. Ben più semplice, invece, è imbattersi nei banchi dei pescivendoli, anima indiscussa di un qualunque mercato napoletano. Sugli enormi recipienti di plastica, disposti in bella vista, possiamo trovare pesce di giornata, pesce “ancora vivo” e pesce un po’ troppo morto (…ma ben nascosto dal venditore). Nonostante quei prodotti raramente, ormai, vengano pescati dallo stesso pescivendolo, ma riforniti da altri pescatori o addirittura da grandi distribuzioni, alcune cose rimangono invariate da millenni di tradizione. Ancora i prodotti vengono costantemente bagnati con l’acqua di mare per essere mantenuti freschi durante il giorno tramite un secchio da collo stretto chiamato “Mummara”, ancora i venditori urlano le qualità della propria merce, esaltandone la freschezza per richiamare gli avventori. Persino i gesti, i modi di fare, le trattative per il prezzo sembrano attività ferme nel tempo, immobili, testimonianze di come, in certe zone del mondo, la storia si vive, respira ed assapora nella quotidianità di tradizioni eterne.

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‘O Schiattamuorto, figura rispettata e temuta. Chi era costui?

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totò schiattamuorto

Totò, iettatore, nel film “Questa è la vita”

“Je faccio ‘o schiattamuorto ‘e professione, modestamente sono conosciuto pe tutte ‘e ccase ‘e dinto a ‘stu rione, pecché quann’io maneo nu tavuto, songo nu specialista ‘e qualità”. Inizia così una celebre poesia di Antonio de Curtis, alias Totò, intitolata proprio “ ‘O schiattamuorto. Ma chi era questo oscuro personaggio conosciuto da tutti e perché aveva a che fare con “nu tavuto” e cioè la bara? Non era altri che il necroforo, o come meglio lo conosciamo, il becchino o beccamorto, cioè colui che seppelliva i morti. Per alcuni il termine napoletano deriva dall’usanza dei becchini di bucherellare i corpi dei defunti, per verificare se fossero davvero morti. Per altri la parola ha origine dal verbo “schiattare” cioè “spremere” e indicava la pratica, in uso fino al Seicento, di comprimere i corpi per farne entrare più di uno nelle bare o per far perdere ai cadaveri tutti i liquidi. Secondo certi studiosi “schiattamuorto” deriverebbe dalla parola francese “croquemort” che è formato dai vocaboli “croque”, letteralmente “divora”, e “mort” cioè “morte”. A sua volta il termine transalpino si riferisce a un qualunque animale che si nutre di carogne, corpi morti appunto. Secondo un’ironica leggenda popolare la parola italiana “beccamorto” risalirebbe invece al Medioevo, quando c’era la pratica di chiamare il medico per verificare se un uomo fosse realmente morto. Il dottore verificava allora se il defunto si muovesse infliggendogli dolore ed era solito mordergli una parte del piede, generalmente l’alluce. Se non registrava nessuna risposta allo stimolo allora si procedeva alla sepoltura.

cimitero delle fontanelle

Cimitero delle fontanelle

Colui che faceva questo mestiere non si occupava solo di deporre i corpi nella bara, sistemava i cadaveri prima che fossero mostrati ai parenti, aggiustava anche le ossa all’occorrenza e, infine, portava la cassa fino al cimitero e si occupava di depositare il defunto nella fossa. Nonostante lo “schiattamuorto” facesse solo uno dati tanti mestieri esistenti, a Napoli, città da sempre credente tanto nel crocifisso quanto nel corno, era una figura rispettata e temuta. Rispettata poiché i vivi riponevano in lui la massima fiducia affidandogli i propri cari una volta morti. Dopotutto, specialmente nel passato, ma non di rado ancora oggi, per rendere onore al defunto i napoletani organizzavano funerali in grande stile composti da omaggi floreali, carri trainati da cavalli, fotografi che dovevano immortalare i visi tristi degli invitati, e cortei. Temuta perché era considerato un portatore di sfortuna e spesso al suo passaggio non mancavano richiami a riti scaramantici. Infatti, anche nella smorfia napoletana sognare il becchino, oltre a rappresentare che si ha terrore della morte, inquieta il sognatore accendendo in lui un campanello di allarme perché preannuncia sventure.

morti e stramorti

Il reality “Morti e Stramorti”

E ovviamente è proprio a Napoli che nel giugno del 2015 è nato un reality, o propriamente detto docu-fiction, interamente dedicato allo “schiattamuorto”, andato in onda su Sky Explora per otto puntate. Protagonista dello show “Morti e Stramuorti” è infatti una famiglia di becchini, composta da quindici persone, intenta a mostrare al pubblico l’arte di trattare i defunti.

Fonti: Martin Rua, “Napoli esoterica e misteriosa”, Roma, Newton Compton Editori, 2015

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I Trova Sigari: esempi viventi dell’arte di arrangiarsi. Ecco cosa facevano

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trova sigari antichi mestieri napoletani

Una delle capacità fondamentali del popolo napoletano è quella di adattarsi, di sopravvivere nonostante la miseria, di arrangiarsi in un mondo dove il lavoro è un lusso. Il “Trova Sigari” era il simbolo di questa lotta alla miseria: si tratta di una figura che i più anziani ricorderanno bene, ma, oggi, è del tutto estinta. Quest’uomo girava per le strade di Napoli con un cestino o un contenitore di latta e raccoglieva i mozziconi di sigaro lasciati a terra. Spesso, per raccoglierli senza sporcarsi le mani, si serviva anche di un lungo bastone munito di un ago all’estremità.

Perché fare una cosa simile? I sigari, a differenza delle sigarette, non hanno, e non avevano, il filtro: quindi l’estremità con cui venivano mantenuti veniva gettata, quando il sigaro era consumato e rischiava di bruciare le dita, ancora piena di tabacco. I “Trova sigari” trinciavano nuovamente quel materiale e lo univano confezionando nuovi sigari che rivendevano ad un prezzo economico a chi non poteva permetterseli nuovi. Spesso, un ricco signore che passeggiava fumando veniva letteralmente pedinato da questi “professionisti” in attesa che gettasse l’ambito mozzicone.

Si tratta di un lavoro praticato, principalmente, da giovani e ragazzini. I “Trova Sigari” più avanti con l’età, di solito, si dedicavano a molti altri lavori: fattorini, banditori e posteggiatori che, percorrendo la città in ogni vicolo e anfratto, ne approfittavano per raccogliere cicche a terra per “arrotondare”. Con l’avvento delle sigarette è stato sempre più difficile trovare resti di sigari, ma i “Trova Sigari” non si arresero: inizialmente nemmeno le sigarette erano munite di filtro e, quando anche l’avessero, i trovatori si accontentavano della piccolissima dose di tabacco che rimaneva intorno al filtro. Oggi, gli ultimi “Trova Sigari” sopravvissuti alla globalizzazione, all’evoluzione sociale e alle sigarette di contrabbando sono dei vecchietti con gravi problemi che vengono ancora avvistati a raccogliere vecchie cicche per riuscire a crearsi qualche sigaretta gratis.

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Antichi mestieri di Napoli. ‘O gliuommenaro: chi era e cosa faceva?

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gliuommenaro

Napoli ha sempre avuto con la musica e la poesia un rapporto particolare. In definitiva tutti i luoghi, o quasi, di questa città hanno ispirato una canzone o un poema. Milioni di parole sono state assorbite, con il passare degli anni, dalle pietre, dai palazzi e dalle piazze del capoluogo campano. Indubbiamente possiamo affermare che i napoletani abbiano un animo sensibile spiccato e sono naturalmente propensi alla bellezza sonora che contraddistingue particolari combinazioni di parole. Forse è per questo che i partenopei hanno sempre sentito la necessità di circondarsi di versi ovunque fosse possibile. Ed è stata da questa esigenza che è nata la figura dello “gliuommenaro”.

Tram

Chi era costui? Sicuramente un artista. Un compositore di rime e filastrocche che, soprattutto tra il XIV e il XV secolo, veniva chiamato per intrattenere gli ospiti agli eventi. Recitava e cantava a cappella o con l’ausilio di uno strumento musicale. Era percepito come una sorta di giullare e menestrello insieme, più simile ancora a un cantastorie, incaricato di rallegrare le serate con versi più o meno divertenti. Alla fine dell’esibizione tutti coloro che avevano assistito allo show mostravano la propria soddisfazione regalandogli una moneta. Con il passare degli anni questa figura è andata sempre di più scomparendo così come tanti altri simboli della storia e della tradizione napoletana. Gli ultimi esemplari di “gliuommenari” risalgono all’Ottocento, quando non era ancora così raro vedere uno di questi artisti raccontare o cantare storielle a bordo dei tram storici che percorrevano la città su e giù.

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A Napoli c’era ‘o Sanguettaro, un mestiere nauseante: ecco cosa faceva

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salasso sanguettaro

Salasso

Il Settecento è stato il periodo storico maggiormente caratterizzato da scoperte nei vari campi del sapere umano. Fra tutte le scienze, proprio la medicina incominciò, durante il cosiddetto secolo dei Lumi, a rivolgersi meno ai filosofi e più agli specialisti delle discipline fisiche e naturali. In particolare furono due le principali correnti mediche che si diffusero in questo periodo: il vitalismo, per il quale alla base della vita vi sarebbe stata una forza vitale, e il meccanicismo, secondo il quale il corpo umano era paragonato a una macchina comandata dalle leggi fisiche. Vi furono diversi progressi nell’assistenza sanitaria, anche se non di rado, quando insorgevano problemi fisici, i malati non si rivolgevano al medico.

sanguettaro

Sanguettaro

A Napoli, per esempio, in alcuni casi si chiamava anche il barbiere. Quest’ultimo era conosciuto come il “sanguettaro” poiché era deputato ad applicare le sanguisughe, chiamate anche “sanguette” o “sanghezuga”, sul corpo delle persone colpite da ictus, trombosi o da altre malattie. La sanguisuga è un piccolo animale nero invertebrato che vive solitamente nelle acque stagnanti e può essere pescato soprattutto in autunno. È provvisto di ventose con le quali si attacca alla parte interessata per iniziare poi a succhiarne il sangue. Durante il procedimento, lo stesso animaletto si ingrossa arrivando ad assomigliare a un piccolo cetriolo.

Il “sanguettaro” dopo aver raccolto o acquistato le sanguisughe, le conservava in vasetti di vetro e, se la persona era stata colpita da un ictus cerebrale, gli poneva uno di questi animali dietro le orecchie, se aveva la polmonite, lo posizionava dietro le spalle. Questa operazione era detta salasso. Dopodiché le sanguisughe venivano messe nella cenere a spurgare il sangue infetto. Da questa usanza tra origine l’imprecazione “Puozze purgà comme ‘a sanguezuca dint’ ‘a cenere ‘o sango corruto de la ‘mmidia toia” e cioè “Che tu possa spurgare, come la sanguisuga nella cenere, il sangue infetto della tua invidia”.

Fonti: Isa Rampone Chinni, Tina Palumbo De Gregorio, “La farmacia di Dio”, Napoli, Rogiosi Editore, 2011

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