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Channel: Antichi mestieri napoletani – Vesuvio Live
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‘O Cabalista: colui che dettava numeri e fortuna ai napoletani

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Napoli – La fortuna, a Napoli, è sempre stata una materia complessa. Riti millenari e ripetuti costantemente, superstizioni, tradizioni e modi di dire hanno sempre, nella testa dei napoletani, veicolato le scelte della dea bendata. Ovviamente l’arrivo del gioco del Lotto, interamente ed esclusivamente incentrato sulla fortuna, ha rappresentato l’apice di questa particolare visione del mondo. In poco tempo chiunque a Napoli andò alla ricerca del metodo infallibile per scegliere i numeri fortunati: è in questo contesto che nacque il cabalista.

Non era altro che un “consulente” che consigliava, adducendo come validità della scelta una sorta di scienza esatta, i numeri da giocare. Spesso lo faceva in base ai sogni che gli venivano raccontati, altre volte semplicemente in base a misteriosi calcoli o persino congiunzioni astrali, o presunte tali. Si trattava spesso di personaggi eccentrici che vestivano in modo bizzarro e che vantavano poteri magici o di preveggenza, al punto che molti si recavano da loro anche per consigli in amore o lavorativi.

Era particolarmente raro, di fatto, che i numeri uscissero davvero: se i cabalisti avessero avuto davvero tali poteri Napoli vanterebbe il record di vincite al Lotto. Eppure i clienti continuavano a visitare queste figure. Probabilmente a spingerli era il semplice “Non è vero, ma ci credo”, la paura di non averle provate tutte, il pensiero che “forse mi avrebbe dato davvero i numeri giusti questa volta”. La speranza, insomma, a mantenuto per decenni questi simpatici truffatori.

Nonostante la loro effettiva cialtroneria c’era comunque del misticismo nei cabalisti, soprattutto per quanto riguarda il nome. Questo deriva, infatti, dalla Cabala Ebraica, una tradizione millenaria sospesa fra religione ed occultismo. Ogni suono, ogni verbo aveva un potere, una vibrazione unica che aveva effetto sulla realtà visibile ed invisibile.

La Cabala collegava tali effetti a determinate parole e, tali parole a dei numeri, riassumendo il tutto in un disegno, un ordine matematico e geometrico. Sempre per la religione ebraica al mondo esisterebbero solo 36 cabalisti in grado di utilizzare questo enorme disegno, il potere numerico, per compiere veri e propri prodigi.

Purtroppo, però, i cabalisti napoletani, molto lontani da quelli della leggenda, riuscirono a compiere un solo vero prodigio: abbindolare un intero popolo per generazioni.

Fonti:
– Antichi mestieri. Il Cabalista – Antonio Curzio

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‘O Maccaronaro e il suo “doje allattante”: chi era e cosa faceva

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Tra i tanti antichi mestieri di Napoli, molti ormai andati persi ma sempre belli da ricordare, ce n'era uno che si è tramandato per generazioni, dando vita anche a un'importante tradizione culinaria: 'o Maccaronaro. Quest'ultimo, infatti, era un signore che vendeva i maccheroni cacio e pepe, unici due condimenti, insieme al formaggio, a sua disposizione, non essendoci ancora il pomodoro. Il termine "maccaronaro" si riferiva sia al rivenditore che al produttore di pasta. Ma di rivenditori "di strada" ce n'erano due tipi: gli stanziati, che avevano una postazione fissa e cuocevano al momento i maccheroni; e gli ambulanti, che invece giravano per la città con una cesta piena di maccheroni più o meno caldi, ma comunque già pronti. Il grido dei maccaronari era inconfondibile: "Doje allattante", urlavano a gran voce per le strade. Il senso era con due centesimi si può comprare una pietanza che sfama e sazia. I maccheroni ebbero un grande successo dal 1800, tanto che i napoletani venivano soprannominati "mangia maccheroni". I maccheroni inizialmente venivano lavorati a mano, poi con la trafila, non appena questa fu inventata. Ma un'altra tradizione dei maccheroni era il modo in cui venivano mangiati: direttamente con le mani, soprattutto dal lazzaro, dallo scugnizzo e dall'uomo del popolo.

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Video. Maxi blitz all’alba, 72 arresti: i posti dove si spacciava e i nomi

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Scacco alla camorra alle prime luci dell'alba: nell’ambito di un’articolata indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Napoli - Direzione Distrettuale Antimafia, i Carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Santa Maria Capua Vetere (CE) hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dall’Ufficio GIP presso il Tribunale di Napoli, nei confronti di 72 indagati (67 arrestati e 5 ricercati), ritenuti responsabili a vario titolo dei reati di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e produzione, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti Una complessa indagine condotta tra i mesi di febbraio 2015 e maggio 2017, in merito alla riorganizzazione della gestione delle piazze di spaccio nel comune di Santa Maria Capua Vetere e nelle aree limitrofe (comuni di San Tammaro, Curti, Casapulla, San Prisco e Macerata Campania) conseguente alla disarticolazione del gruppo Fava avvenuta nell’anno 2013. Grazie agli spunti dati dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e di una intensa attività investigativa sono state individuate le piazze di spaccio nel comune sammaritano che si approvvigionavano degli stupefacenti nella provincia di Napoli. Stesse piazze di spaccio erano presenti anche in diversi contesti territoriali delle province di Napoli e Avellino: - un gruppo operante nell’area vesuviana, segnatamente nei comuni di Acerra, Pomigliano D’Arco, Castello di Cisterna, Somma Vesuviana, San Vitaliano e Marigliano. Per tale gruppo è stata riconosciuta anche l’aggravante dell’associazione armata; - un gruppo attivo nell’area nord-ovest della provincia di Napoli (Comune di Giugliano in Campania); - un gruppo operativo nell’area nolana e in quella della confinante provincia di Avellino (Comuni di Nola, Cimitile, Camposano, Roccarainola e Avella); - un gruppo localizzato nei quartieri napoletani di Scampia, Secondigliano e Capodichino. I nomignoli I criminali usavano vari metodi per eludere le indagini e le intercettazioni, tra cui l’uso di linguaggio in codice per camuffare il contenuto delle conversazioni (utilizzando termini quali “aperitivo”, “pastiera”, “sfogliatelle”, “arance”, “grappa barricata”, “festa bianca”, “apparecchiare la tavola”, “preparare il presepe”, “gas soporifero”, “bianchetto”, “calzare le scarpe ai bambini” per avanzare richieste di stupefacente, espressioni quali “10 euro di nafta”, “marca da bollo da 10 euro”, “serie A”, “il camino è buono”, “fratello grosso”, “quanti invitati siete”, “portare il verde”, per indicare, invece, la qualità e le quantità richieste di stupefacente) e l’attribuzione di nomignoli per impedire l’identificazione dei colloquianti (“la Signora”, “il Polacco”, “O’ Viking”, “O’ Leone”, “il Messicano”, “il Killer”, “Diablo”, “Pistola”, “Bastone”, “il Geometra” e “O’ Gnu” ). I luoghi I luoghi individuati per le attività di spaccio c.d. “al minuto” erano le principali piazze del comune di Santa Maria Capua Vetere, l’area adiacente una chiesa nel comune di San Prisco, la villa comunale del comune di San Tammaro, lo spazio antistante una scuola del comune di Marigliano e diversi circoli ricreativi e sale giochi dell’area vesuviana. Il GIP, condividendo l’impianto accusatorio dell’A.G. inquirente, ha disposto per 60 indagati la custodia cautelare in carcere, mentre per altri 12 è stata individuata la misura degli arresti domiciliari. QUESTE LE PERSONE TRATTE IN ARRESTO: Soggetti destinatari della misura della custodia cautelare in carcere: 1. A. Agostino, classe 1974; 2. A. Luca, classe 1987; 3. A. Antonietta, classe 1983; 4. A. Giuseppe, classe 1984; 5. A. Sandro, classe 1989; 6. B. Francesco, classe 1988; 7. B. Fabio, classe 1992; 8. B.Oreste, classe 1996; 9. B.Oreste, classe 1988; 10. C.Felice, classe 1986; 11. C.Antonio, classe 1966; 12. C.Cesare, classe 1990; 13. D’A.Mario, classe 1990; 14. D’A.Lorenzo, classe 1973; 15. D.Giuseppe, classe 1984; 16. D M.  Mario, classe 1991; 17. DE M.Salvatore, classe 1965; 18. DE V. Biagio, classe 1984; 19. DI N. Pasquale, classe 1982; 20. DI P.Vincenzo, classe 1976; 21. F. Bartolomeo, classe 1965; 22. F. Claudia, classe 1977; 23. F. Angelo, classe 1988; 24. G. Armando, classe 1987; 25. G. Michele, classe 1987; 26. G. Patrizia, classe 1968; 27. G.Carmine, classe 1991; 28. G. Carmine, classe 1981; 29. G.Domenico, classe 1979; 30. G.Alessandro, classe 1982; 31. G.Gavino, classe 1991; 32. L. Osvaldo, classe 1976; 33. M.Irene, classe 1986; 34. M.Antonietta, classe 1991; 35. M. Valentina, classe 1995; 36. M. Paolo, classe 1972; 37. M.Felice, classe 1975; 38. P.Fabio, classe 1984; 39. P. Vincenzo, classe 1987; 40. P.Rosalba, classe 1968; 41. P.Roberto, classe 1968; 42. P. Andrea, classe 1986; 43. P.Giuseppe, classe 1978; 44. R. Roberto, classe 1988; 45. R. Raffaele, classe 1968; 46. R. Margherita, classe 1973; 47. S. Fabio, classe 1971; 48. S.Giovanni, classe 1977; 49. S. Eduardo, classe 1982; 50. T. Giovanni, classe 1989; 51. T.Giovanni, classe 1974; 52. T.Bruna, classe 1981; 53. T. Antonio, classe 1974; 54. V. Giuseppe, classe 1981; 55. V.Vincenzo, classe 1985; 56. V.Giovanni, classe 1982; 57. V. Ciro, classe 1957 ; 58. V. Riccardo, classe 1974. Soggetti destinatari della misura degli arresti domiciliari: 59. B. Emilia, classe 1969; 60. C.Anna, classe 1971; 61. C.Angelo, classe 1994; 62. D. Maria Carmina, classe 1983; 63. F. Giuseppe, classe 1979; 64. R.Simona, classe 1993; 65. S.Francesca, classe 1985; 66. S. Fabiola, classe 1994; 67. V. Fausto, classe 1970

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‘O zeppularo, dai Liberalia a Ippolito Cavalcanti: quando friggere a Napoli era un’arte

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Comunque vada, sarà un peccato: di gola se la si mangia, un gran rammarico se non lo si fa. Nessuno mandi, però, la zeppola a "farsi friggere", perché è proprio così che quel "diavolo tentatore" d'o' zeppularo preparava questo irresistibile impasto di farina, acqua, sale e in alcuni casi anche di patate, il tutto spolverato con una dolcissima coltre di zucchero o zucchero a velo, o ancora ripieno di crema pasticcera e guarnita con un'amarena. Il primo a farlo ufficialmente fu il celebre gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, autore del saggio "Cucina teorico-pratica". Proprio in questo testo, infatti, è riportata la ricetta per fare le famose zeppole di San Giuseppe, oggi la variante più tipica di questa prelibatezza dolciaria: “Per fare le zeppole, piatto di rubrica in Napoli farai la pasta bugné. Fatta questa pasta, la porrai sulla tavola di marmo, o sul pancone verniciato d’oglio e rimenerai la pasta, della stessa ne farai tanti tortanetti, non molto piccoli, e li friggerai con strutto bollentissimo, potrai ancora con oglio; appena fatta una piccola crosta li rivolterai, e con un ferro puntato espressamente o con un puntuto di legno li pungicherai dovendo vuotarsi così ed allora le zeppole saranno ottime...”. Era il 1837 e già centinaia di migliaia di zeppole erano sicuramente giù state cucinate e mangiate. Già, perché la tradizione delle zeppole risalirebbe addirittura all'antica Roma e alla festa delle Liberalia, celebrata in onore della divinità del vino, Bacco, e di quella del frumento, Sileno, in onore del quale erano appunto cotte delle ciambelle di frumento. Proprio da quest'ultime deriverebbero le zeppole di San Giuseppe, oggi consumate soprattutto in occasione della festa del papà, il 19 marzo. La tradizione e la leggenda di questo dolce sono legate ad un’antichissima storia tramandata da secoli. Si narra, infatti, che dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, San Giuseppe fu costretto a cucinare e vendere frittelle per sfamare la Sua Famiglia. Secondo altre fonti, però, le zeppole in passato venivano preparate verso la fine di marzo più che altro per festeggiare la fine dell'inverno, durante i riti di purificazione agraria. La tradizione racconta, comunque, che in questa data, nella città di Napoli, i friggitori erano soliti esibirsi pubblicamente nelle piazze e nelle strade del centro per mostrare ai cittadini l’abilità di friggere le zeppole davanti alla propria bottega. Non è dato sapere con certezza nemmeno chi davvero abbia inventato le zeppole di San Giuseppe nella loro versione attuale, che sembra nascere comunque come dolce conventuale: secondo alcuni nel convento di S. Gregorio Armeno, secondo altri in quello di Santa Patrizia. Ma c’è anche chi ne attribuisce “l’invenzione” alle monache della Croce di Lucca, o a quelle dello Splendore. Ciò che è certo, comunque, è che quella di San Giuseppe è solo l'ultima, in ordine cronologico, di una serie di varianti della zeppola. Infatti, prima che Ippolito Cavalcanti ne sancisse ufficialmente la nascita, esistevano già: - La zeppola classica: la più antica, a forma di ciambella, si fa con semplicità, impastando della farina passata al setaccio con acqua e sale. Dall’impasto, liscio e morbido, si ricavano delle ciambelle, che vengono fritte nell’olio caldo (ma non bollente), quindi asciugate e spolverate con zucchero e/o cannella. Prima dell’avvento dello zucchero, al suo posto si usava il miele: prima dell’olio di oliva c’era lo strutto. - La graffa: identica nella forma alla zeppola classica: a forma di ciam bella ricoperta di zucchero e cannella. Si differenzia per il tipo di impasto che prevede anche le patate per una maggiore morbidezza. Deve il suo nome al Krapfen, dolce austriaco di forma tonda ma non a ciambella e diversamente dalla Graffa, ripieno di crema. Il nome del Krapfen deriva da Veronica Krapf, fornaia austriaca che l'ha inventato. - La zeppola pastacrisciuta è una zeppola salata. Omonima ma diversa, anche nella forma, dalle altre zeppole. E' come una pallina di pochi centimetri che si ottiene facendo cuocere nell'olio bollente un pizzico di pasta lievitata. Ancora oggi essa si acquista nelle tante friggitore napoletane assieme ai "panzarotti" (crocchè di patate)E' a tale zeppola che si fa riferimento per indicare un difetto di pronuncia che riguarda la esse e la zeta.

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Sulle orme di Ernesto De Martino: l’antico mestiere delle “prefiche”, le “chiagnazzare” napoletane

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chiagnazzare

chiagnazzareCome abbiamo già avuto la possibilità di vedere in passato, il mestiere della cosiddetta "scapillata" è una professione tutta napoletana. Chi? Chi sarebbe ora questa "scapillata"? Giusto, scusatemi, forse la conoscete, o meglio, le conoscete come "chiagnazzare": stiamo parlando, quindi, delle vere e proprie professioniste napoletane del lamento funebre. Ma da dove proviene questo antico mestiere? Com'è giunto fino a noi? Chi lo ha studiato? Cosa significa a livello storico e psicoanalitico? Proprio qui cercheremo di delineare un quadro ordinato della questione delle "chiagnazzare". Per cominciare, la questione sopracitata è stata oggetto di studio di un celebre antropologo, filosofo e storico delle religioni napoletano: Ernesto De Martino (1908-1965), padre della Storia delle Religioni di ambito napoletano e non solo. De Martino, a capo di una squadra eterogenea di studiosi, ha ben deciso che il campo d'indagine dell'Antropologia e della Storia delle Religioni non doveva più essere necessariamente ricercato tra le popolazioni indigene più lontane: il "culturalmente altro" è, in realtà, proprio qui, in mezzo a noi. Gli studi di Ernesto De Martino, come suggerisce già il titolo del suo capolavoro "Sud e Magia", adottano come campo d'indagine il meridione d'Italia, quasi quello che in passato è stato il Regno delle Due Sicilie. Un altro tema famosissimo dello storico delle religioni napoletano è stato il cosiddetto "tarantismo" o "tarantolismo", tema affrontato in un'altra grande monografia, "La Terra del Rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud". Ernesto De MartinoÈ in "Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria" (1958) che, però, De Martino parla del fenomeno del pianto rituale attraverso studi condotti col suo team in Lucania. La crisi spirituale-psicologica vissuta dall'individuo in seguito alla perdita di un caro è, dunque, elemento costitutivo della natura umana e si declina nella cosiddetta "crisi del cordoglio". Due sono le forme della crisi del cordoglio:
  1. Ebetudine stuporosa o, in alcune parlate meridionali, "attassamento": senso di stupore paralizzante che, alla notizia della morte di un caro, impedisce di rispondere agli stimoli esterni come se ci si trovasse al di fuori della realtà e che, spesso, impedisce anche di piangere;
  2. Planctus irrelativo o esplosione parossistica: volontà autolesionistica di colui che ha ricevuto la notizia della scomparsa di una persona cara di assumere la medesima condizione del defunto. Ciò consiste nel procurarsi del vero e proprio dolore fisico (strapparsi i capelli, battersi il petto, strapparsi le vesti ecc...) ed è spesso accompagnato da un forte pianto che sembra non poter finire mai.
Queste due possibili reazioni alla scomparsa di una persona cara possono placarsi soltanto attraverso il cosiddetto "planctus rituale" ("pianto rituale"), una sorta di "addomesticamento" delle emozioni immediate: il planctus rituale, infatti, sblocca l'ebetudine stuporosa ed evita gli eccessi del planctus irrelativo incanalando il dolore in una propria forma organizzata. È a questo punto della questione che entrano in gioco le nostre "chiagnazzare", quelle che De Martino nei suoi studi riporterà come "prefiche": stiamo parlando, quindi, di vere e proprie professioniste del lamento funebre ingaggiate per piangere durante i funerali "guidando" il lamento di tutti gli altri. Ernesto De MartinoTrattandosi di una sopravvivenza che, in Italia, è esclusiva del mondo meridionale, si tratta di un'abitudine di estrazione magno-greca. Tale sopravvivenza, infatti, è staccata dal pensiero cristiano egemonico proprio perché abitudine ben precedente proveniente dalla madrepatria greca. L'uso delle lamentatrici professioniste, delle "chiagnazzare", infatti, è immagine ben presente nella religione greca antica. Ritroviamo queste figure professionali, infatti, già nei poemi omerici durante i funerali di vari eroi. Qui le prefiche compaiono, a chiome sciolte, alla testa delle processioni funebri subito seguite da moglie, madre e sorelle dell'eroico defunto. Proprio così, anche nella realtà del Meridione d'Italia, la prefica guidava il corteo con il suo lamento per portare la variamente vissuta crisi del cordoglio allo stato di planctus rituale. Così come emerso in numerosi studi storico-antropologici del secolo scorso, anche stavolta è la pratica del "rito" a riportare ordine nelle cose. Ernesto De Martino, con i suoi studi, è riuscito a dimostrare al mondo dell'Antropologia e della Storia delle Religioni che il Meridione d'Italia è stato (e ancora è) palcoscenico di interessantissime sopravvivenze culturali che affondano le radici nei più profondi meandri della nostra storia. Ebbene, a quanto pare, partire dal Sud, scoprire il Sud è il primo passo per scoprire il mondo. Bibliografia:
  • "La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud", Ernesto De Martino, Il Saggiatore, Milano, 1961;
  • "Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria", Ernesto De Martino, Einaudi, Torino, 1958; n. ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2000 (con introduzione di Clara Gallini);
  • "Sud e magia", Ernesto De Martino, Feltrinelli, Milano, 1959; n. ed. 2002 (con introduzione di Umberto Galimberti);
  • "Storia dell'Antropologia - seconda edizione", Ugo Fabietti, Zanichelli, Bologna, 2001;
  • "Manuale di Storia delle Religioni", Giovanni Filoramo, Marcello Massenzio, Massimo Raveri, Paolo Scarpi, Editori Laterza, Bari, 1998; n. ed. 2008.

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‘O sanzaro: tra i più antichi mestieri, l’uomo con le calze rosse

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'o sanzaro - calze rosse A Napoli, come già detto molte volte, l'arte di inventare e improvvisare è una dote riconosciuta a tutto il popolo, che in passato ha approfittato di questa fortuna per fare introdursi nel mondo del lavoro. Molti degli antichi mestieri napoletani, col tempo si sono estinti lasciando a noi l'uso comune di parole che non definiscono più un mestiere, ma il suo modo di fare ed agire. Quante volte durante le tipiche chiacchierate tra amici e parenti dove ci si diverte a combinare scherzosamente i matrimoni, qualcuno esordisce dicendo "te sie miso 'e cazette rosse?". Sarà capitato a tutti almeno una volta di sentire questa frase che ovviamente non è una curiosità assurda in merito alle calze indossate, ma un chiaro riferimento a quello che era l'abbigliamento utilizzato anticamente da colui che combinava incontri e matrimoni, 'o sanzaro. A Napoli arriva la genialità di precedere le attuali agenzie matrimoniali o ancora di più i moderni siti di incontri, 'o sanzaro non aveva bisogno di nickname, password e PC, indossava semplicemente il suo segno distintivo, le calze rosse, e si metteva subito all'opera per combinare la nascita di nuove coppie. Ovviamente pensare ad un compito così riduttivo è assurdo, combinare matrimoni era solo una delle tante mansioni che apparteneva al mestiere del sanzaro che complessivamente si potrebbe definire un mediatore che oltre a matrimoni e appuntamenti procurava case in affitto. La parola deriva dall'arabo simsar, ed è giunta al Mezzogiorno tra il 600 e l'800 dopo Cristo. Poliedrico come la maggior parte degli antichi mestieri napoletani, 'o sanzaro è andato man mano scomparendo dalla scena dei lavori partenopei, lasciando in eredità il nome del suo mestiere che allegramente viene destinato attribuito a quelle persone che da ogni cosa combinano un'opportunità.

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‘O pazzariello, ecco uno dei più simpatici e antichi mestieri di Napoli

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'o pazzariello L'arte di arrangiarsi, a Napoli, è qualcosa che si fa da secoli. Ogni napoletano nel proprio DNA conserva l'attitudine per la suddetta arte e la tramanda di generazione in generazione, anche se i nostri antenati sarebbero pronti a giurare che noi della nuova generazione ci adagiamo sugli allori, giustificando la nostra disoccupazione con la crisi e non con la pigrizia. Anticamente invece, dire che non si trovava lavoro era impossibile e non perché esisteva il lavoro per tutti, ma perché qualora non ci fosse stato allora si dava spazio alla fantasia e a quella che prima abbiamo definito 'arte di arrangiarsi'. In molti casi la parola 'arte' descrive esattamente alcuni mestieri che nel tempo hanno caratterizzato la storia popolare della nostra città, uno di questo è 'o pazzariello. Per incontrare un pazzariello dobbiamo collocarci nella Napoli di fine Settecento, Ottocento, e metà Novecento, si tratta di un'artista di strada stravagante e burlone che si impegna a divertire i passanti. Attualmente è facile sentir dire " che è 'o pazziariello tuojo? " quando si vuole indicare una persona considerata quasi un giocattolo, un diversivo per far ridere un po' ma il termine esatto è appunto pazzariello. Pazzariello, come pazzo, una persona folle, matta che beffa la serietà e regala sorrisi, vestito con abiti vistosi e spesso accompagnato da un'orchestrina. Molte volte il suo compito era quello di impugnare pane e pasta per pubblicizzare le botteghe che lo producevano, un po' come i ragazzi  che oggi si incontrano fuori ai ristoranti  e negozi alimentari che convincono la clientela a fermasi lì. Il pazzariello era notoriamente presente anche alle sagre e alle  feste di paese, dove si incaricava di attirare persone per vendere all'asta alcuni oggetti che avrebbero arricchito il ricavato della festa. Oggi si incontrano tutti i giorni artisti di strada ed ognuno con un talento diverso, ma l'immagine e la simpatia del pazzariello resterà sempre impressa nei cuori di tutti i napoletani che pensando a questo antico mestiere, facilmente ricorderanno Totò nel film "L'Oro di Napoli", dove appunto interpretava un simpatico e sfavillante pazzariello.

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Foto. Presepe di pizza nella Basilica di Santa Chiara a Napoli

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Un grande Presepe di pizza è stato installato questa mattina nella Basilica di Santa Chiara a Napoli. L'opera è stata voluta da Sergio Miccù, Presidente dell'Associazione pizzaiuoli napoletani ed è stata realizzata dagli artigiani presepiali con i maestri pizziuoli. Una grandissima realizzazione voluta per il terzo anniversario del riconoscimento Unesco per l'arte del pizzaiuolo napoletano. A spiegare la scelta di creare e installare quest'opera è Miccù, Presidente dell'Associazione pizzaiuoli napoletani: "Oggi è il terzo anniversario del riconoscimento Unesco per l'arte del pizzaiuolo napoletano e abbiamo realizzato un'opera inedita e straordinaria, perché riteniamo indispensabile valorizzare insieme pizza e presepe che rappresentano due delle arti più antiche della nostra città e che caratterizzano al meglio l'essere napoletani e la nostra identità. Siamo in un periodo difficile ma non poteva mancare la celebrazione del terzo anniversario del riconoscimento Unesco per cui abbiamo lottato tanto". Presenti nella Basilica di Santa Chiara per l'installazione del Presepe di Pizza anche l'Assessore regionale alla formazione professionale, Armida Filippelli, la vicepresidente di Scabec, Teresa Armato, e il direttore generale alle Politiche culturali e del turismo, Rosanna Romano. Un'occasione per unire le due arti napoletane per eccellenza, quella della pizza e del presepe, così come spiegato da Giuseppe Serroni, Presidente dell'Associazione I Sedili di Napoli Onlus: "Abbiamo vinto questa sfida ambiziosa ed affascinante: il grande 'praesepiUm' che vede per la primissima volta insieme i maestri dell'Arte Presepiale e quelli dell'Arte dei Pizzaiuoli, è realtà. Oggi con l'installazione nell'angioina Basilica di Santa Chiara, abbiamo degnamente festeggiato il terzo anniversario del riconoscimento Unesco dell'Arte dei Pizzaiuoli Napoletani e contestualmente abbiamo lanciato un messaggio di speranza e di rinascita in una fase di pandemia che ancora non vede il suo termine". Il Presepe di Pizza misura tre metri di diametro e due metri di altezza e, mentre il rivestimento è tutto fatto di pasta per pizza. Gli oggetti sono state realizzati sempre dai pizzaiuoli e i presepi dalla Bottega di Arte Presepiale Iasevoli. Tanti i pizzaiuoli che hanno preso parte all'iniziativa, circa 70.      

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“Natale in Casa Cupiello”, gli ombrelli di Mario Talarico da Eduardo a Castellitto

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mario talarico

mario talaricoMario Talarico Since 1860 - Ieri sera è andato in onda su Rai 1 il nuovo film "Natale in Casa Cupiello" diretto da Edoardo De Angelis: si tratta di una rivisitazione dell'omonima opera teatrale di Eduardo De Filippo in occasione del 120esimo anniversario della sua nascita. Rispetto all'opera originale, scritta nel 1931 e, dunque, ambientata nella Napoli degli anni '30, le vicende del film sono ambientate circa vent'anni dopo, negli anni '50. Insomma, il tempo della storia e il tempo in cui viene diffusa cambiano ma c'è qualcosa che non è mai cambiato per le vicende di "Natale in Casa Cupiello": si tratta degli ombrelli usati come oggetti di scena. Tali ombrelli, infatti, dalla prima edizione dell'opera di Eduardo fino al nuovo film sono tutti realizzati dalla storica e famosissima bottega artigiana Mario Talarico Since 1860. A dirlo è stato proprio Talarico, quello che è ormai famoso in tutto il mondo come l'ultimo ombrellaio di Napoli. Attraverso il suo profilo Facebook, infatti, Mario Talarico ha annunciato in un primo post: "Dopo Eduardo, Luca e Luigi De Filippo... lo abbiamo realizzato anche per Castellitto. Un semplice ombrello con una grande storia". L'ombrellaio ha allegato anche le immagini del suo lavoro e delle scene in cui compare per quanto riguarda il nuovo film che vede Sergio Castellitto come protagonista.
E chi poteva realizzare l'ombrello ??? Mario Talarico Pubblicato da Mario Talarico su Martedì 22 dicembre 2020
In un secondo post, invece, Talarico ha ripercorso tutta la storia di "Natale in Casa Cupiello" dicendo: "Il nostro ombrello presente in tutte le versioni di Natale in casa Cupiello... Mario Talarico Since 1860". Le foto allegate al post e un breve video, inoltre, mostrano tutte le opere artigianali realizzate dalla storica bottega per questo grande classico del teatro partenopeo.
Il nostro ombrello presente in tutte le versioni di Natale in casa Cupiello... Mario Talarico since 1860 Pubblicato da Mario Talarico su Martedì 22 dicembre 2020

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‘O pusteggiatore: colui che cantava l’arte di Napoli

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'a pusteggia

'a pusteggia Tra le più antiche forme d'arte presenti a Napoli, una è quella che ci rende conosciuti ovunque, ed  la canzone napoletana. Conosciuta in tutto il mondo, dolce sinfonia che parte dal cuore, parole in musica che cantano l'amore, quante volte anche in America hanno ascoltato 'O sole mio? E' proprio grazie alla musica che in passato a Napoli nasceva un altro degli antichi mestieri napoletani, non il musicista o il cantante ma 'O pusteggiatore. 'O pusteggiatore o 'e pusteggiature nel caso si trattasse di più persone, era una figura che faceva della musica il suo strumento di guadagno. Passeggiando tra le strade della città, in luoghi affollati e  ristoranti pieni di gente facoltosa e turisti,  improvvisava uno spettacolo canoro accompagnato dal suo strumento con cui allietava alcuni momenti, ricevendo in cambio notevoli mance. Con il passare del tempo, partendo dal XVIII secolo, alcuni più fortunati avanzarono nei salotti dei ricchi della città, accompagnando in musica feste e ricevimenti in cambio di laute ricompense mentre nel secolo successivo, altri  riuscirono ad oltrepassare i confini portando la loro arte in giro per il mondo, raggiungendo anche l'America, meta che a quei tempi era considerata come un vero e proprio traguardo. Il passare del tempo e l'arrivo delle nuove tecnologie e diritti d'autore dimezzarono di gran lunga la categoria dei posteggiatori che fino a quel momento con la musica si erano quantomeno guadagnati da vivere, in casi più fortunati avevano addirittura trovato il successo, come Enrico Caruso, che iniziò la sua carriera esibendosi ai Bagni Risorgimento di via Caracciolo per poi proseguire la sua scalata all'immenso successo. La figura del posteggiatore ad oggi non è svanita del tutto e anche se la peculiarità dovuta all'antichità non si evince a pieno titolo, spesso si prova a ricreare l'atmosfera di un tempo, quando ai matrimoni viene richiesta la 'pusteggia', cioè un gruppo di persone che intonano le antiche canzoni napoletane.

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Circumvesuviana, le ruote dei treni vanno in Antartide: a cosa serviranno

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Le ruote dei treni della Circumvesuviana che non serviranno più andranno in Antartide per una ricerca sugli oceani e sui cambiamenti climatici. A stabilirlo è un accordo di collaborazione sottoscritto tra EAV ed il Dipartimento di Scienze e Tecnologie dell’Università degli Studi di Napoli Parthenope per la fornitura di ruote dismesse dei treni da utilizzare per gli studi sui cambiamenti climatici che il Dipartimento svolgerà nella prossima spedizione prevista per l'autunno-inverno 2021/22 nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide.

Ruote dei treni della Circumvesuviana, a cosa serviranno

Le ruote dei treni sono infatti una delle migliori soluzioni adottate per l'ancoraggio in punti fissi di delicati strumenti oceanografici, come correntometri e sonde multiparametriche, che consentono di monitorare la variabilità oceanica negli anni per gli studi sui cambiamenti climatici. L’accordo sottoscritto dal Direttore del DiST prof. Giorgio Budillon e dal Presidente di EAV dott. Umberto De Gregorio, è il punto di partenza di una virtuosa cooperazione tra due Enti che insistono sulla realtà territoriale di Napoli e della Regione Campania.

Antartide, dove si trova

L'Antartide è un continente situato nell'emisfero australe della Terra, circostante il Polo sud e opposto all'Artide, comprendente le terre e i mari compresi entro il Circolo polare antartico, caratterizzato dalla presenza della calotta polare antartica, dalle piattaforme di ghiaccio, dalla banchisa antartica e circondato dall'oceano antartico. Il 98% del territorio è coperto dai ghiacci della calotta antartica, il cui spessore medio è di 1600 metri, che lo rendono il continente più freddo e inospitale del pianeta. In media è il luogo più freddo della Terra e con le maggiori riserve di acqua dolce del pianeta. Il territorio presenta la più elevata media altimetrica sul livello del mare di tutti i continenti. L'Antartide è considerato un deserto, con precipitazioni annue di soli 200 mm lungo la costa, e molto meno nelle regioni interne.

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