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Channel: Antichi mestieri napoletani – Vesuvio Live
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Video. ‘O Panzaruttaro, tra folklore e gastronomia

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friggitoria ambulante

Mangiare cibo da strada a Napoli è sempre un’esperienza particolare ma lo diventa ancor di più se a preparare “zeppole e panzarotti” ci pensa “o panzaruttaro”, uomo di innata allegria dedito all’antico mestiere partenopeo oramai in estinzione.

Basta un carretto motorizzato munito di friggitrice, tanta pazienza ed uno spiccato senso dell’ironia, perché in questo mestiere bisogna saper far anche ridere, oltre che far mangiare. Un’arte antica e sapiente che fa di Napoli una città unica nel suo genere.

Ma non solo panzarotti e pizze fritte, basta dare un’occhiata veloce sul banchetto per trovare supplì, carciofi fritti, gli irrinunciabili panzarotti e tante altre leccornie della tipica tradizione partenopea.. della serie “Solo a Napoli”!

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Napoletani lavatevi? Lo hanno sempre fatto. Alla scoperta del saponaro

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'O sapunaro - Il saponaro

‘O sapunaro, il saponaro, è un antichissimo mestiere di Napoli che oggi si è estinto, salvo qualche rarissima eccezione in alcuni piccoli paesi, e che prende le mosse dal Quattrocento, quando i monaci olivetani producevano del sapone con il quale compravano umili mobili per arredare il proprio convento sito in quella che oggi si chiama propria Via Monteoliveto, nei pressi di Piazza del Gesù e di fonte alla chiesa di Sant’Anna dei Lombardi. Il sapone prodotto da quei monaci era di elevatissima qualità, e il baratto era sempre a favore dei falegnami e dei rigattieri, che poi rivendevano il sapone, simile a quello di Marsiglia, guadagnandoci ulteriormente. Esso era utilizzato, oltre che per lavare i panni, anche per la pulizia del corpo e dei capelli, usanza sopravvissuta fino a circa tre decenni fa, quando le grandi aziende non avevano ancora invaso il mercato con i propri prodotti, fattore che poi ha determinato la scomparsa del saponaro, di cui si parla di seguito..

Prendendo spunto dagli olivetani il saponaro divenne un vero e proprio mestiere, praticato da chi non sapeva esercitare alcuna arte, e infatti quella figura un po’ presa in giro dagli artigiani i quali, al contrario, possedevano specifiche abilità apprese nell’arco di anni; per questo motivo, ancora oggi c’è chi apostrofa “saponaro”, o peggio “sapunariello”, colui il quale non possiede alcuna competenza, è totalmente incapace. In realtà i saponari una grande abilità l’avevano, ed era quella di riuscire a persuadere le donne di casa ad acquistare il proprio sapone (successivamente anche altra merce di uso giornaliero) che sovente era scarsissimo e non particolarmente profumato, acquisto che avveniva, ancora, attraverso il baratto: il saponaro accettava di tutto, specialmente mappine, vestiti consunti e malandati, scarpe vecchie, oggetti di vario utilizzo non più adatti alla propria funzione che poi “riciclavano”; qualche volta erano pagati anche in denaro, se gli stracci erano davvero troppo rovinati o non ce n’erano in casa, però ciò avveniva molto di rado anche perché, come detto, il saponaro nasce proprio per liberare le donne dalla roba vecchia. Da tale mestiere nasce poi il famoso detto ccà ‘e pezze e ‘ccà ‘o sapone, che specifica l’equità di un baratto, non solo materiale, di un “io do a te e tu dai a me”.

'O sapunaro: carretto del saponaro

Carretto del saponaro. Foto: blog “ilsorrisovienmangiando”

Ancora fino a qualche decennio fa, il saponaro girava per le strade e i vicarielli di Napoli indossando alcuni degli stracci che vendeva, dei colori più diversi, insieme a un sacco di juta sulle spalle contenente la merce da vendere e avuta in pagamento, in modo tale che costui era una delle più popolari figure del folklore: immaginatelo tutto colorato, da solo o con un carretto trainato da un ciuccio, che si annunciava a voce alta – E cu nu sportello ncapo vaco facenno ‘o sapunariello!; o ancora: Robba ausata, scarpe vecchie, simme lente, stamme ccà! Bona gente, arapite ‘e recchie: sapunare, sapunà! Il saponaro era, insomma, quasi una maschera che univa la necessità di guadagnarsi il pane quotidiano alla teatralità, rispondendo in modo perfetto ai versi di Eduardo De Filippo: “Napule è ’nu paese curioso / è nu teatro antico, sempre apierto. / Ce nasce gente ca senza cuncierto / scenne p’ ’e strate e sape recità”.

Il saponaro, inoltre, non facevo altro che “sfruttare” una caratteristica delle massaie napoletane, ossia la particolare attenzione alla pulizia. Ancora oggi, entrando nelle più umili case dei quartieri poveri della città, si nota come quelle quattro mura e i modesti suppellettili siano tenuti lindi e pinti, a differenza di quanto è possibile vedere altrove, dove sovente si ironizza sulla presunta scarsezza di igiene dei Partenopei. Napoletani i quali, ricordiamo, sono stati i primi in Europa a potersi lavare quotidianamente a casa, visto che le loro case erano dotate di acqua corrente, mentre gli altri erano costretti a immergersi nelle acque di fiumi e canali. Come non ricordare poi il bidet, il quale non si trovava soltanto alla Reggia di Caserta o nelle dimore nobili e ricche, bensì anche nelle case della gente comune, e che al momento dell’Unità i piemontesi, non sapendo cosa fosse, indicavano con “oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra”: destinazione d’uso che d’altra parte non hanno imparato nemmeno a oltre un secolo e mezzo di distanza, giacché è noto che spesso da Napoli in su lo adoperano soltanto per i piedi, ammesso che lo usino. L’aspirante showman Emanuele Filiberto di Savoia, infatti, in TV ha dichiarato candidamente: “gli Inglesi non usano il bidet, neanche io lo uso”.

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Un “mestiere” napoletano poco conosciuto: l’“Aggiusta bambini”

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Aggiusta bambini

Chi di voi ha mai sentito parlare di “Aggiusta Bambini“? No, non si tratta né di artigiani che riparavano bambole e né di un personaggio di un film horror, ma di un vero e proprio mestiere napoletano.

Le Aggiusta bambini erano delle donne che sfruttavano l’ignoranza e l’ingenuità dei ceti più poveri e dopo aver assistito ad un parto proponevano di “aggiustare” il bambino appena nato, da alcuni difetti e malformazioni. In realtà queste anomalie non erano altro che imperfezioni causati dai traumi e dagli sforzi subiti durante il parto, in quanto tutti i neonati danno l’impressione di avere difetti morfologici, accentuati dalla loro pelle molto elastica, ma è necessario far trascorrere qualche giorno per far tornare tutto nella norma.

Ma queste donne come facevano ad aggiustare i neonati? Non facevano altro che convincere le madri di esser in grado di eliminare questi difetti, portandoseli a casa e aspettando il tempo necessario affinché la pelle si distendesse e che i segni del parto sparissero. Tutto questo, ovviamente, in cambio di un compenso.

Oggi il mestiere non è molto conosciuto e neanche gli anziani ne hanno memoria, quindi è probabile che si tratti di un’attività molto antica, antecedente almeno il XIX secolo. Ma di rilevante resta il fatto che questo mestiere non fa altro che denotare l’ingegno e la creatività che contraddistingue i napoletani fin dalle origini.

E voi lo conoscete questo mestiere? Se ne sapete di più non esitate a fornirci preziosi dettagli!

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‘O Mastuggiorgio. Alla scoperta di un antico mestiere napoletano

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'O Mastuggiorgio

‘O Mastuggiorgio era un infermiere di manicomio (“‘e Pazzarie”), generalmente di corporatura forte e robusta, che aveva il compito di sorvegliare i pazzi affinché non facessero del male a se stessi ed ad altri. Egli collaborava a stretto contatto con lo psichiatra, intervenendo se necessario e bloccando il malato infilandogli la camicia di forza.

Ma da dove deriva il termine? Le teorie sono diverse. La prima vede l’origine della parola dal termine greco mastigophòros, “portatore di frusta”, cioè colui che usava la frusta per placare gli animi delle persone più agitate. Mentre la seconda, meno dotta ma più accreditata, vede la sua derivazione da Mastro Giorgio Cattaneo, un castigamatti vissuto nel Seicento che credeva di curare le malattie nervose con le percosse e picchiando violentemente i malati con un bastone. I “castigamatti” o “fustigatori” erano gli psichiatri e gli infermieri dell‘ospedale degli Incurabili e il nome lascia capire la violenza fisica con cui erano trattati, ricoverati e curati i malati di mente.

Il termine di “Mastuggiorgio” compare anche in letteratura. Salvatore di Giacomo, nella sua poesia “Si è Rosa ca mme vò”, si ispira al forzuto infermiere:  “Nzerrateme, nzerrateme addò stanno, tant’ate, comm’a me, gurdate e nchiuse, addò passano ‘a vita, sbarianno, pazze cuiete e pazze furiuse. Nchiuditeme pè sempe ‘int’a sti mmura, è o mastuggiorgio mettiteme allato.”

E ancora Raffaele Viviani in ” ‘O guappo nnammurato”, dove sminuito e umiliato dagli spietati maltrattamenti da parte della donna di cui è perdutamente innamorato, dice di essersi ridotto allo zimbello del paese, ad una specie di “mastuggiorgio”, ossia un infermiere di manicomio.

La figura del “castigamatti” colpì molto l’immaginazione popolare, infatti nell’idioma, nel costume e nella letteratura partenopei sono rimaste impronte fino ad oggi. In Napoletano si usa ancor oggi dare il nome di Mastogiorgio a coloro che si occupano della cura e della custodia dei pazzi, el’aspetta Mastogiorgio si dice delle persone che dimostrano chiari segni di follia.

Oggi il termine viene usato a Napoli anche come appellativo, ma ha una doppia valenza: può definire un uomo intraprendente e determinato, capace di prendere le redini di una situazione difficile, ma che può essere anche violento e pronto ad ottenere ciò che vuole ad ogni costo.

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Antichi mestieri: chi era ‘o franfelliccaro?

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franfelliccaro

Personaggio amato in particolar modo dai bambini ’o franfelliccaro rientra di diritto nella lunga schiera degli antichi mestieri napoletani oramai scomparsi. Portatore di gioia e sorrisi, ’o franfelliccaro era solito girare per le strade ed i vicoli di Napoli in compagnia della sue grande sporta piena di dolciumi, spesso fatti in casa, a base di zucchero e miele: le franfellicche.

Esistono numerosi scritti riguardanti il franfelliccaro, ritenuto da molti uno dei mestieri più rappresentativi della Napoli che fu. Provvisto semplicemente di un grande cesto, il franfelliccaro era solito preparare le franfellicche (pezzetti di zucchero e miele colorato) in casa, ma non di rado lo si poteva trovare anche per le vie di Napoli munito di un piccolo carrello dotato di un fornello a carbone sul quale si adagiava maestosa e fiera una grande pentola annerita dai fumi e dall’usura all’interno della quale l’uomo era solito versare una gran quantità di zucchero che, una volta liquefatto, veniva mescolato a miele e coloranti.

Una volta impastate, le franfellicche venivano fatte raffreddare appena e adagiate, una volta divenute solide, su un apposito gancio. A quel punto l’uomo richiamava a gran voce bambini e golosi di ogni età. Secondo quanto riportato da un articolo di napolistyle, pare che la formula preferita del franfelliccaro per richiamare i passanti fosse la seguente. “Guaglio’ accàttate ‘o franfellicco, Tuosto tuo’, ‘o franfellicco! Cinche culure e cinche sapure pe’ ‘nu sordo!

franfellicche

I “bastoncini di zucchero caramellato” venivano prodotti con materiali poveri e facilmente reperibili, per questo motivo potevano essere acquistati anche dai ceti meno abbienti visti il loro costo irrisorio.

Sul blog di Antoniovesp si legge che numerosi erano i dottori che esaltavano le virtù terapeutiche del “franfellicche” ritenute un «buon lassativo per la tosse», vista la presenza di miele caldo, da sempre ottimo rimedio contro i malanni di stagione.

Pare che, per rendere ancor più accattivanti le se incursioni, il franfelliccaro fosse solito organizzare giochi e piccoli momenti teatrali volti ad incrementare gli affari. Tra questi, alcuni indovinelli che permettevano ai bambini di aggiudicarsi un dolcino gratis.

Franfelliccaro

Alfredo Gargiulo nel 1928, dedicò perfino una poesia a questo mestiere oramai in disuso,intitolata proprio, ‘e franfellicche.

‘E FRANFELLICCHE
“Doje paparelle le zucchero,
tre o quatto sigarette le ciucculata;
nu perettiello chino d’acqua e ccèvoza,
‘cu dint’ ‘a ficusecca sceruppata.
Poi’le franfellicche: al massimo,
nu trenta franfellicche le ogni culore;
cierte so’ chine le povere,
cierte se so’ squagliate p I “o calore.
Pure pare incredibile,
Ce io ce sto riflettenno la na semmana):
ncopp’a nu bancariello e a sti tre prùbbeche,
ce campa,spisso,na famiglia sana …”

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‘O pazzariello, ecco uno dei più simpatici e antichi mestieri di Napoli

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'o pazzariello

L’arte di arrangiarsi, a Napoli, è qualcosa che si fa da secoli. Ogni napoletano nel proprio DNA conserva l’attitudine per la suddetta arte e la tramanda di generazione in generazione, anche se i nostri antenati sarebbero pronti a giurare che noi della nuova generazione ci adagiamo sugli allori, giustificando la nostra disoccupazione con la crisi e non con la pigrizia.

Anticamente invece, dire che non si trovava lavoro era impossibile e non perché esisteva il lavoro per tutti, ma perché qualora non ci fosse stato allora si dava spazio alla fantasia e a quella che prima abbiamo definito ‘arte di arrangiarsi’. In molti casi la parola ‘arte‘ descrive esattamente alcuni mestieri che nel tempo hanno caratterizzato la storia popolare della nostra città, uno di questo èo pazzariello.

Per incontrare un pazzariello dobbiamo collocarci nella Napoli di fine Settecento, Ottocento, e metà Novecento, si tratta di un’artista di strada stravagante e burlone che si impegna a divertire i passanti. Attualmente è facile sentir dire ” che è ‘o pazziariello tuojo? “ quando si vuole indicare una persona considerata quasi un giocattolo, un diversivo per far ridere un po’ ma il termine esatto è appunto pazzariello.

Pazzariello, come pazzo, una persona folle, matta che beffa la serietà e regala sorrisi, vestito con abiti vistosi e spesso accompagnato da un’orchestrina. Molte volte il suo compito era quello di impugnare pane e pasta per pubblicizzare le botteghe che lo producevano, un po’ come i ragazzi  che oggi si incontrano fuori ai ristoranti  e negozi alimentari che convincono la clientela a fermasi lì.

Il pazzariello era notoriamente presente anche alle sagre e alle  feste di paese, dove si incaricava di attirare persone per vendere all’asta alcuni oggetti che avrebbero arricchito il ricavato della festa.

Oggi si incontrano tutti i giorni artisti di strada ed ognuno con un talento diverso, ma l’immagine e la simpatia del pazzariello resterà sempre impressa nei cuori di tutti i napoletani che pensando a questo antico mestiere, facilmente ricorderanno Totò nel film “L’Oro di Napoli”, dove appunto interpretava un simpatico e sfavillante pazzariello.

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‘O capillò: ecco chi era e che faceva chi esercitava questo mestiere

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'Treccia

Anticamente, per le strade delle città partenopee, si aggirava una figura insolita, ‘o capillò (chiamato anche capillaro), un ambulante che comprava trecce e capelli per poi rivenderli ai produttori di touppé e parrucche. Gli strumenti di lavoro di cui si avvaleva erano un paio di forbici ben affilate ed un cesto di vimini, chiamato sporta, in cui adagiava le trecce d’oro di giovani fanciulle o le code di cavallo.

Sempre ben curato nell’aspetto e nel vestiario, richiamava l’attenzione della gente gridando ad alta voce “Capillò, Capillò, chi me chiamma” e cercava sempre di portare a termine il suo lavoro in cambio di poche monete, con cui le donne riuscivano a sfamare i propri cari ed a sopravvivere. L’ambulante infatti approfittava soprattutto di periodi di particolare miseria. Il capillaro era molto abile nel persuadere le donne e quando i loro mariti si rendevano conto del taglio di capelli era pronto a scappare a gambe levate. Questo mestiere veniva tramandato di generazione in generazione; i capillari inventarono un gergo speciale comprensibile solo da coloro che esercitavano l’attività.

Dopo aver raccolto tutte le trecce ed i capelli, venivano prima lavati e divisi per colore, lunghezza, consistenza e finezza e poi messi sulle logge delle case per l’asciugatura al sole. Dopodiché venivano spediti ai grossisti che li vendevano non solo in tutta l’Europa ma anche oltre oceano. Venivano dunque utilizzati per la realizzazione di parrucche molto sontuose e pregiate per le acconciature di aristocratiche dame, dei Lord inglesi dei magistrati, dei regnanti, insomma di vari personaggi illustri. Questo particolare mestiere si è estinto nel dopoguerra, dopo l’introduzione delle fibre sintetiche.

Il celeberrimo poeta napoletano Salvatore di Giacomo ha scritto una poesia, ” ‘O capillò”, incentrata sulla figura del Capillò, descrivendo la sua attività lavorativa come cospicua fonte di reddito ma allo stesso come mestiere spesso “scomodo”.
La protagonista della poesia è una giovane fanciulla perdutamente innamorata del suo uomo finito in galera. Per aiutarlo gli invia il ricavato in denaro ottenuto dalla vendita delle sue trecce d’oro. Ecco l’ultima strofa:

Capillò! .. . Chi me cniamma? Essa. – Ah,destino!
LL’nanno arrestato a Pasca ‘o nnammurato,
e s’ha tagliate ‘e trezze d’oro fino
pe ne mannà denare a ‘o carcerato.
E l scesa anr ino a mmiez’ ‘e gradiate:
– Te ngo s t i trezze; oi ni’, t’ ‘e buo ‘ acc at t àv-. ..
L’aggio mise tre lire emme l’ha date
(enun me so’ fidato d’ ‘a guardà .. . ).
L’aggio sentuta chiagnere scennenno,
ma nteneruto no,no,nun me so’!
Sti trezze d’oro mm’ ‘e voglio i’ vennenno!
Capillo’! .. . Capillo’! . . .

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Chi era l’ammuola forbece? Scopriamo questo mestiere perduto

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Ammuola forbece - arrotino

Chi era l’ammuola forbece?  Era l’arrotino. Con quest’ultimo termine ancora non risulta semplice inquadrare la figura, quindi, è necessaria una descrizione.

Trattasi di uno degli antichi mestieri di Napoli; era un ambulante, che di solito girava su una vecchia bicicletta o un classico carretto e andava per i vicoli della città. L’arrotino aveva una funzione importante: aggiustava coltelli, temperini, forbici et similia, per farne riparare il filo della lama. Illo tempore, tale mestiere era richiesto, a discapito di oggi che i suddetti oggetti si trovano a iosa in commercio. L’ammuola forbece era ben attrezzato; aveva, infatti, il suo tavolo da lavoro, come ogni degno mestiere di una volta. Lavorava effettuando riparazioni.

Le riparazioni venivano effettuate grazie ad un pedale sulla parte anteriore del suo carretto. Più dettagliatamente, come si legge su liberoricercatore.it, “l’ammuola forbece con la semplice rotazione dei pedali azionava la mola a ruota”. Mestiere che ripetiamo, oggi, è stato sostituito dall’idea moderna del comprare e non del riparare. Riparare è sicuramente più difficile. Comprare soprattutto piccoli oggetti è alla portata di tutti. Riusciva ad essere presente in ogni luogo e in ogni dove della città, rispettava i suoi clienti ed era sempre ricercato dagli stessi. Anche senza la moderna tecnologia di comunicazione, stabiliva degli orari in determinati giorni, e arrivava per prestare la sua opera. Ogni giorno della settimana era presente in una zona diversa, come stabilito dal suo calendario di lavoro (oggetto non informatico, ma conosciuto da tutti).

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Chi era l’arriffatore? Scopriamo insieme questo antico mestiere…

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arriffatore

Questa è la storia di un antico mestiere napoletano considerato oggi reato e punito con una multa che va da 51 a 516 euro. L’arriffatore, organizzatore di riffa, era un personaggio molto noto a Napoli e lo è stato fino agli anni ’80.

Ma cos’era la riffa?  Era un piccolo gioco come quello del lotto. Vendendo novanta numeri si permetteva di vincere qualche premio che poteva variare dal cibo all’abbigliamento, dall’uovo di Pasqua ai prodotti per il cenone natalizio e si proponeva prevalentemente in prossimità di feste, di momenti economici un po’ difficili, in prossimità del periodo degli sposalizi o delle comunioni o quando i prodotti messi in palio avevano prezzi che non potevano essere comprati sul mercato se non per piccole quantità. Certe volte erano gli stessi partecipanti alla lotteria a suggerire le cose da mettere in palio per cui si poteva vincere dell’olio extravergine di oliva o dell’ottimo vino prodotto in zona, un abito un scialle, galline vive, salami, fette d’arrosto, tortani e frutta.

Il mestiere dell’arriffatore era un ricordo della dominazione borbonica a Napoli, infatti, “riffa” in spagnolo significa proprio sorteggio. Egli girava per il quartiere dove era conosciuto ed escludeva i parenti per non far nascere chiacchiere in caso di vincita. Appena i novanta numeri venivano esauriti, a mezzogiorno si metteva al centro di una piazza e richiamando l’attenzione di tutti con voce squillante e sottintesi maliziosi tirava i numeri dallo stesso panariello usato per la tombola. Le frasi sono ancora oggi usate nelle tombole natalizie di famiglia e trasmesse, insieme, ai significati della smorfia napoletana, di generazione in generazione. L’arriffatore, che la maggior parte delle volte era un femminiello (travestito), urlava: “Neh, ca io o’ tire!“, oppure: “Guagliò, guarda, a mana è libbera!“, ecc. Poi rovesciava sulla mano sinistra il numero che diventava il primo estratto recitandolo a voce alta da farsi sentire da quasi tutto il vicinato e assegnava il premio più importante a chi lo possedeva. Il personaggio del femminiello (in foto) viene ricordato a volte anche tra i pastori del presepe napoletano e la tradizionale riffa popolare viene ricordata oggi come “la tombola dei femminielli“, con eventi e tombole cittadine.

Quando i vincitori erano presenti i premi venivano consegnati subito altrimenti si provvedeva ad avvisarli e non è mai capitato di dimenticare un premio anche se il suo valore non raggiungeva quello del primo. Quando l’arriffatore vendeva un biglietto a qualcuno che non apparteneva al suo quartiere al cliente veniva dato un biglietto mentre sulla matrice era annotato il suo nome e cognome.

Non era raro che l’arriffatore poteva far parte del gentil sesso, infatti, nel dopoguerra c’erano donne che in questo modo procuravano alla famiglia un guadagno consistente che permetteva di vivere degnamente per la maggior parte dell’anno per poi ricorrere ad altri mestieri, anch’essi ambulanti e stagionali, ma senza alcun fascino che la riffa portava con sé.

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‘O nciarmatore: chi era e cosa faceva?

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nciarmatore, superstizione, folklore

Avete mai sentito parlare di un insolito personaggio, chiamato ‘o nciarmatore? Il termine rimanda subito ad “inciarmo”, usato per indicare qualcosa che ha una certa predisposizione all’inganno.

Nell’antica Napoli, ‘o nciarmatore era una figura molto ambigua: conosciuto da tutti come un “guaritore”, in realtà non era altro che un ciarlatano, pronto ad imbrogliare le persone. Tutti erano convinti che fosse immune al veleno dei serpenti, grazie all’intercessione di San Paolo e San Domenico da Cucullo, la cui statuta, avvolta da cento serpenti intrecciati tra di loro, ogni anno viene portata in giro per l’omonimo villaggio abruzzese a cui deve il nome.

‘O nciarmatore conosceva bene tutte le caratteristiche ed i segreti della medicina naturale ed era in grado di preparare i cosidetti “cataplàsemi”, ovvero decotti, erbe, filtri ed impacchi alle erbe. Per questo motivo le persone più povere e poco acculturate (soprattutto nelle campagne) richiedevano il suo aiuto per far fronte alla malattia di qualche parente, credendo che potesse realmente guarirli.

Ogni volta, ‘o nciarmatore, inscenava un rito per far credere a tutti che avesse doti straordinarie e guadagnarsi la loro fiducia. Col passare degli anni, la sua figura non esiste più ma comunque il termine nciamatore viene ancora usato per designare qualcuno che fa parte del mondo dei maghi e delle fattucchiere o qualcuno che tenta in qualche modo di imbrogliare qualcun altro, quali santoni e falsi medici.

Ferdinando Russo ha dedicato una poesia a quest’ambigua figura:

‘O nciarmatore

Mmiezo a lu mare nc’ è nu nciarmatore

c’ arravoglia matasse ‘e filo niro.

Ogne filo che spezza è nu delore,

ogne nudeco ‘e filo è nu suspiro.

E mbroglia e sbroglia, e muòvete ca vai,

ogne matassa cientumilia guai;

e quann’Ammore nun è cchiù sincero

se mbrògliano accussì, core e penziero.

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Cosa significa e da dove nasce il termine napoletano.. sciantosa!

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sciantosa

Te si’ fatta na vesta scullata, nu cappiello cu ‘e nastre e cu ‘e rrose… stive ‘mmiez’a tre o quatto sciantose e parlave francese…è accussí? Recita Reginella, scritta nel 1917 da Libero Bovio e ricordata oggi come una delle canzoni napoletane più famose di tutti i tempi. Ma chi era la sciantosa? Nel linguaggio attuale con questo termine, oramai divenuto di uso comune anche nella lingua italiana, si identifica una donna di bell’aspetto, vanitosa e civettuola.

Non di rado con questo termine, erroneamente, alcuni identificano donne di facili costumi pronte a concedersi ad incontri fugaci e segreti con amanti di ogni età, ma in realtà tale interpretazione è assolutamente sbagliata e ben lontana dal reale significato del termine. La sciantosa infatti, pur essendo maliziosa e provocante, faceva ben altro mestiere. Legata al mondo dell’arte e del teatro la sciantosa era un’artista del Café-chantant parigino, difatti il termine viene fatto risalire al periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

Il termine sciantosa difatti, rappresenta l’italianizzazione della parola francese chanteuse, traducibile in maniera letterale con il termine “cantante”. Le artiste erano solite esibirsi in piccoli locali con brani tratti da canzoni popolari e brevi stralci di opere liriche. Piccole dive, osannate dal pubblico, spesso bellissime e irresistibili. Da qui l’associazione sempre più frequente del termine,ad aggettivi quali “seducente”, “fascinosa” e “ammaliatrice”.

cafè margherita

Pare che le chanteuses, per aumentare il proprio fascino agli occhi dei clienti, fossero solite parlare con accenti stranieri, raccontando di lontane storie d’amore avvenute oltreoceano con uomini importanti e famosi, in realtà mai conosciuti davvero. Caratteristica delle sciantose più ricche era quella di dotarsi dei claquer, supporter speciali che sotto lauta ricompensa, applaudivano vigorosamente alla fine delle esecuzioni per fomentare il pubblico presente e trascinare la sala in ovazioni senza fine, accrescendo così la stima e la fame della chanteuse di turno.

Tra le più famose sciantose troviamo Anna Fougez, Gilda Mignonette, Olimpia D’Avigny e Yvonne De Fleuriel. Da figure di punta dei teatri europei, con l’avvento del cinematografo, piano piano le sciantose scomparvero per lasciare il posto alle soubrette prime e alle più attuali showgirl poi.

sciantose

Donne sensuali e dalla spiccata carica seduttiva, non brillavano in gusto ed eleganza. Sembra infatti che non fossero donne conosciute per stile e raffinatezza ma bensì per l’ostentazione esasperata di abiti e gioielli costosi portati senza gusto e con un pizzico di volgarità. Nonostante tutto, le sciantose del Caffè Margherita (e non solo) continuano a conservare un fascino indiscusso.. ammaliando, nonostante il passare il tempo, maschi di ogni epoca e di ogni età!

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‘O sanzaro: tra i più antichi mestieri, l’uomo con le calze rosse

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'o sanzaro - calze rosse

A Napoli, come già detto molte volte, l’arte di inventare e improvvisare è una dote riconosciuta a tutto il popolo, che in passato ha approfittato di questa fortuna per fare introdursi nel mondo del lavoro. Molti degli antichi mestieri napoletani, col tempo si sono estinti lasciando a noi l’uso comune di parole che non definiscono più un mestiere, ma il suo modo di fare ed agire.

Quante volte durante le tipiche chiacchierate tra amici e parenti dove ci si diverte a combinare scherzosamente i matrimoni, qualcuno esordisce dicendo “te sie miso ‘e cazette rosse?”. Sarà capitato a tutti almeno una volta di sentire questa frase che ovviamente non è una curiosità assurda in merito alle calze indossate, ma un chiaro riferimento a quello che era l’abbigliamento utilizzato anticamente da colui che combinava incontri e matrimoni, ‘o sanzaro.

A Napoli arriva la genialità di precedere le attuali agenzie matrimoniali o ancora di più i moderni siti di incontri, ‘o sanzaro non aveva bisogno di nickname, password e PC, indossava semplicemente il suo segno distintivo, le calze rosse, e si metteva subito all’opera per combinare la nascita di nuove coppie. Ovviamente pensare ad un compito così riduttivo è assurdo, combinare matrimoni era solo una delle tante mansioni che apparteneva al mestiere del sanzaro che complessivamente si potrebbe definire un mediatore che oltre a matrimoni e appuntamenti procurava case in affitto. La parola deriva dall’arabo simsar, ed è giunta al Mezzogiorno tra il 600 e l’800 dopo Cristo.

Poliedrico come la maggior parte degli antichi mestieri napoletani, ‘o sanzaro è andato man mano scomparendo dalla scena dei lavori partenopei, lasciando in eredità il nome del suo mestiere che allegramente viene destinato attribuito a quelle persone che da ogni cosa combinano un’opportunità.

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I Maestri ramai di Sant’Anastasia, un primato da non dimenticare

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Artigiano della lavorazione del rame

La pagina Facebook “Racconti anastasiani” ha ripubblicato un vecchio articolo, scritto da Francesco Corcione, dedicato ai vecchi ramai di Sant’Anastasia,nel vesuviano. Forse non tutti sanno che anticamente i ramai affollavano le strade della città, intenti a lavorare con il loro martello, con il quale battevano il rame e circondati dai loro mille e diversi attrezzi, quali basamenti di metallo, cesoie, bulini, scalpelli utilizzati per praticare le incisioni.

L’autore, dopo aver illustrato le origini e le mansioni del ramaio, ha cercato di spigare i motivi per cui l’attività non viene più esercitata. Furono gli Arabi, intorno all’anno mille, ad importare la lavorazione del rame nell’area di Nola e dell’agro vesuviano.

Utilizzavano questo materiale per realizzare stoviglie, contenitori ed altri oggetti d’uso quotidiano poiché aveva una consistenza più leggera della terra cottura, facilmente soggetta a rotture. Così i vesuviani iniziarono ad apprendere le tecniche di lavorazione, tramandate poi di generazione in generazione.

Fare il ramaio equivaleva ad imparare il mestiere da piccoli, in tenera età, con la consapevolezza di dover lavorare duramente, per molte ore, con un notevole sforzo fisico. Ogni futuro ramaio apprendeva i segreti del mestiere dal proprio genitore. Nulla era lasciato al caso, non era di certo un lavoro da poter improvvisare su due piedi.

maestri ramai

Un vecchio ramaio, attraverso le sue parole, testimonia la grandissima fatica di questo lavoro “A volte dovevo stare seduto 12 ore per cercare con i vecchi ferri del mestiere, di dare forma e vita ad un oggetto, piegando e ripiegando il rame e ci si rompeva la schiena in questo modo per imparare a lavorare”.L’autore cita, inoltre alcuni ramai famosi: Miniero, Ragosta, Di Pascale e Magnetta.

Nel dopoguerra sono nate molte piccole industrie a conduzione familiare dove si lavorava il rame grazie ai macchinari ed all’intervento degli artigiani. Hanno avuto molta fortuna nel campo del commercio ed in particolare, negli anni ’60 e ’70, decretando un grande boom economico.

Oggi la figura del ramaio non è più in voga: non esistono scuole professionali che formano i giovani alla professione e le materie prime hanno un costo davvero alto. Un vero peccato per un patrimonio artigianale immenso, oramai completamente dimenticato, che un tempo rappresentò per il vesuviano motivo di orgoglio e ricchezza.

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La “mammazezzella”: ecco chi era e il suo ruolo fondamentale

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mammazezzella
Anticamente alcune donne svolgevano un mestiere molto richiesto, che oggi definiamo come “balia” o “bambinaia”. Si tratta della “mammazezzella”, ovvero la nutrice, scelta dalle mamme per accudire e spesso anche allattare i propri figli in cambio di soldi.

A seconda dei compiti da svolgere, veniva chiama “Balia asciutta” se la sua funzione era solo di accudire i piccoli, “Balia di latte” se doveva anche allattarli. Per molte donne la balia di latte era una figura indispensabile, di cui non potevano fare a meno: le affidavano i loro figli fino allo svezzamento, in quanto non potevano allattare per scarsità o mancanza di latte materno.

Le mammazezzelle erano donne molto formose e prosperose, dalla caranagione rosea, per lo più contadine, provenienti da Alife, Procida, Sorrento, Marano e Fratta, vicino Napoli. Per evitare le “spingule ‘e nuttrice” ovvero le punture durante l’allattamento, si servivano di una spilla per fermare i vestiti e le fettucce dei piccoli. Un modo efficace per preservare per la sicurezza dei neonati.

La figura della mammazezzella man mano si estinse dopo l’introduzione del latte in polvere, che veniva succhiato dai bambini attraverso ‘o biberò, il poppatoio o con ‘o ciucce, il ciucciotto.

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“Napule ‘e na vota”. Una rubrica sugli antichi mestieri napoletani

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mestieri

Accanto al racconto di storie e leggende popolari, dei proverbi e delle espressioni napoletane più tipiche, nasce questa rubrica che vuole raccogliere gli antichi mestieri di Napoli per farvi scoprire uno degli aspetti più caratteristici della città.

La maggior parte di essi sono scomparsi, molti invece evidenziano l’inventiva e l’originalità del popolo napoletano, ma che nella loro stranezza nascondono un tessuto sociale fatto di povertà e miseria che costringeva le persone meno abbienti ad inventarsi qualsiasi tipo di impiego pur di sfamare la propria famiglia. Questa rubrica sugli antichi mestieri, sia sopravvissuti che estinti, potrà contribuire a delineare una parte di vita ormai dimenticata di Napoli.

Ci si arrangiava come si poteva, a volte anche frodando le persone, pur di portare un po’ di soldi a casa, come nel caso dell’aggiusta bambini, oppure facendo dei lavori che oggi vengono considerati reato, nel caso dell’arriffatore. Mestieri simpatici, a volte, che rivelano l’animo più comico ed autoironico dei napoletani, come il pazzariello.

I dintorni di Napoli:

Gli antichi mestieri di Casoria

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Lo zampognaro. Una figura importante del Natale napoletano

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zampognaro

A Napoli non c’è Natale senza il suono dolce e malinconico degli zampognari che invadono le strade, i vicoli e le case annunciando la notizia dell’Immacolata Concezione ed invitando all’attesa del Messia.

Lo zampognaro è il suonatore di zampogna, strumento musicale a fiato, diffuso in Italia centro-meridionale fin dall’età arcaica. E’ costituito da un otre che fungendo da serbatoio d’aria si gonfia per consentire al musicista di riprendere fiato senza interrompere il suono. In origine lo zampognaro veniva dal vicino Oriente e conquistava con le sue note l’antica Roma, dove si suonava l’utriculus, e dove l’imperatore Nerone, amante delle arti e della musica, si dilettava con le zampogne. Lo zampognaro era il pastore che suonando viaggiava dentro se stesso e in esso si smarriva, era un contemplatore di stelle, di pensieri, un pifferaio della transumanza, infatti la zampogna serviva a richiamare all’ordine il gregge.

La figura deve la sua fama a Napoli e al suo regno, dove a metà Settecento facevano da accompagnamento musicale alle preghiere dell’avvocato-prelato Alfonso Maria de’ Liguori, che raggruppava i lazzari per strada in piccoli gruppi canori, facendogli così apprendere i fondamenti del cristianesimo. Ricordiamo che fu lui a consegnare alla storia “Tu scendi dalle stelle”, brano immancabile nella scaletta degli zampognari.

L’attività dello zampognaro non è semplice. Occorre molto esercizio per imparare a suonare questi strumenti ed essere uno zampognaro significa soprattutto condividere dei valori, rispettare delle tradizioni, sacrificarsi per la propria passione.

zampogna

La “coppia” di zampognari del presepe napoletano

Immancabile nel presepe napoletano è la “coppia” di zampognari, dove generalmente trova posto nelle immediate vicinanze della “capanna” o “grotta” della Sacra Famiglia.

Negli ultimi anni la figura dello zampognaro sembrava stesse scomparendo, ma oggi grazie ad alcune Associazioni napoletane e non solo, si sta ridando nuova dignità a questi musicisti trasmettendo la tradizione anche alle nuove generazioni. Oggi nei grandi centri urbani, la zampogna, si usa solo nel periodo natalizio, mentre in ambito rurale/pastorale questa accompagna tutti gli avvenimenti dell’anno (processioni, rituali, feste e balli) ed in particolare in Campania, in Basilicata, in Calabria, in Sicilia e in Abruzzo.

E da voi ci sono ancora gli zampognari?

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L’acquaiuolo: l’antico venditore d’acqua tra le strade di Napoli

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Acquafrescaio

L’acquafrescaio, più comunemente conosciuto come ‘acquaiuolo’, è uno dei più antichi mestieri napoletani che ancora oggi, in parte, sopravvivono nella città partenopea.

Il suo lavoro, così come si evince dal nome, era attinente alla vendita dell’acqua che però si suddivideva in diversi tipi. Dall’acquafresacio si poteva trovare l‘acqua addirosa, aromatizzata solitamente al  profumo di vino, l‘acqua annevata, ovvero rinfrescata con blocchi di ghiaccio nelle botti in cui veniva conservata, o anche altri tipi  che venivano vendute per usi diversi, come l‘acqua di mare, l‘acqua di fiume, o l’acqua appannata che serviva per fare le polpette,l‘acqua suffregna e molte altre ancora.

La vendita veniva fatta tramite un apposito carretto trainato, l’acquafrescaio dava la voce tra le strade di Napoli e molto spesso le casalinghe calavano il classico paniere dai piani alti delle loro abitazioni, con qualche moneta e un fiaschetto da riempire con l’acqua desiderata. I più fortunati invece la loro attività la svolgevano in chioschi stabili posizionati in diversi punti della città e ancora oggi è possibile vederne alcuni, ornati sempre allo stesso modo, con limoni e foglie, un abbellimento che da anni caratterizza quei chioschi anche ribattezzati come ‘banca dell’acqua’.

Cosa non si faceva per vendere anche un semplice bicchiere d’acqua? Anticamente si inventava di tutto per andare avanti e pure non si aveva mai la sensazione di sopravvivere bensì di vivere dignitosamente, perchè anche convincere i passanti che un bicchiere d’acqua ‘particolare’ poteva alleviare un dolore non era una truffa ma un augurio indiretto, una sorta speranza in più.

Col tempo i chioschi sono diminuiti e dei pochi rimasti, alcuni si sono ampliati aumentando la vendita dei prodotti, ma passeggiando per il centro storico non sarà difficile notarne alcuni che ancora mantengono l’origine antica del mestiere in questione.

Napoli è sempre stata uno spettacolo in ogni sua forma, e se gli antichi mestieri napoletani sono ricordati ancora oggi come un patrimonio importante per la nostra storia e la nostra cultura, non è un caso, ma un vanto che possiamo permetterci in piena regola.

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‘O pusteggiatore: colui che cantava l’arte di Napoli

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'a pusteggia

Tra le più antiche forme d’arte presenti a Napoli, una è quella che ci rende conosciuti ovunque, ed  la canzone napoletana.

Conosciuta in tutto il mondo, dolce sinfonia che parte dal cuore, parole in musica che cantano l’amore, quante volte anche in America hanno ascoltato ‘O sole mio? E’ proprio grazie alla musica che in passato a Napoli nasceva un altro degli antichi mestieri napoletani, non il musicista o il cantante ma ‘O pusteggiatore.

‘O pusteggiatore o ‘e pusteggiature nel caso si trattasse di più persone, era una figura che faceva della musica il suo strumento di guadagno. Passeggiando tra le strade della città, in luoghi affollati e  ristoranti pieni di gente facoltosa e turisti,  improvvisava uno spettacolo canoro accompagnato dal suo strumento con cui allietava alcuni momenti, ricevendo in cambio notevoli mance.

Con il passare del tempo, partendo dal XVIII secolo, alcuni più fortunati avanzarono nei salotti dei ricchi della città, accompagnando in musica feste e ricevimenti in cambio di laute ricompense mentre nel secolo successivo, altri  riuscirono ad oltrepassare i confini portando la loro arte in giro per il mondo, raggiungendo anche l’America, meta che a quei tempi era considerata come un vero e proprio traguardo.

Il passare del tempo e l’arrivo delle nuove tecnologie e diritti d’autore dimezzarono di gran lunga la categoria dei posteggiatori che fino a quel momento con la musica si erano quantomeno guadagnati da vivere, in casi più fortunati avevano addirittura trovato il successo, come Enrico Caruso, che iniziò la sua carriera esibendosi ai Bagni Risorgimento di via Caracciolo per poi proseguire la sua scalata all’immenso successo.

La figura del posteggiatore ad oggi non è svanita del tutto e anche se la peculiarità dovuta all’antichità non si evince a pieno titolo, spesso si prova a ricreare l’atmosfera di un tempo, quando ai matrimoni viene richiesta la ‘pusteggia’, cioè un gruppo di persone che intonano le antiche canzoni napoletane.

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‘O castagnaro: allesse, palluottele e caldarroste a profumare la città

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'o castagnaro

Ancora un viaggio tra gli antichi mestieri napoletani, una nuova scoperta per i più giovani e un dolce ricordo per i più adulti. Chi era ‘o castagnaro?

Appunto come facilmente si può dedurre dal nome, ‘o castagnaro era il venditore di castagne e svolgeva la sua attività da ambulante o in un posto fisso. La cottura del prodotto variava a seconda delle diverse occasioni,  nel caso in cui fosse all’opera già di primo mattino, le castagne venivano cucinate in un brodo con alloro, sale e semi di finocchio che bolliva in un calderone scaldato da carbone ardente, e si differenziavano in ‘Allesse’ e ‘Palluottele’, le prime sbucciate prima di riporle nel brodo, mentre le seconde venivano immerse con tutta la buccia.

La specialità però spettava alle caldarroste, che di solito erano vendute di sera, cotte sul carretto dove era posizionato un fornello con una pentola bucata. Dopo la cottura le caldarroste finivano in un cesto coperto di lana per fare in modo che il calore non si disperdesse.

Passeggiare per le strade della città, profumate da caldarroste sempre pronte per uno spuntino fugace era una gioia semplice che tutti potevano permettersi, una coccola genuina che si è tramandata nel tempo.

Ancora oggi infatti, in alcune strade di Napoli è possibile trovare’o castagnaro che mantiene vive le tradizioni e quei piccoli piaceri di un tempo, vendendo ‘cuoppi’ di caldarroste profumate ai passanti nostalgici delle vecchie tradizioni.

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Napoli antica: chi è ‘o gravunaro? Scopriamolo…

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Gravunaro

La curiosità è da sempre il più grande motore dell’intelligenza, stuzzica la volontà del sapere e muove i passi verso la conoscenza, ed è così infatti  che molto spesso si imparano a conoscere le origini e le caratteristiche antiche di un popolo o di una città.

Il viaggio tra gli antichi mestieri napoletani, si intensifica e procede, qualche volta soddisfacendo dubbi o rianimando ricordi e altre volte stuzzicando ulteriore curiosità e fame di sapere. Oggi siamo pronti a conoscere un altro mestiere antico napoletano, ‘o gravunaro.

Il carbone, fondamentale per alimentare camini, bracieri e ferri da stiro, veniva ricavato dalla legna raccolta nei boschi e portato in spalla in grossi sacchi tra i vicoli della città, da un uomo detto ‘o gravunaro, ovvero il venditore di carbone.

Lui stesso aveva il compito di raccogliere il carbone che poi avrebbe rivenduto, suddividendolo nei vari tipi: ‘a carbonella costosa e poco duratura, fatta di piccoli rametti e utilizzata per l’accensione dei bracieri, ‘a muniglia  costosa ma duratura, formata da frammenti di pezzi più grandi che venivano pressati, o’ gravone il classico carbone simile a quello tutt’oggi in commercio, ‘a cernatura cioè la polvere di carbone che cosparsa sulla brace faceva aumentare la durata, e ‘o cocc nome che indicava l’origine del prodotto, ‘carbon coke’, cioè carbone minerale  venduto in forme molto grandi a cui altri materiali venivano aggiunti, non produceva cattivo odore ma aveva un costo elevato.

‘O gravunaro, inizialmente svolgeva la sua attività da ambulante, trascinando sulle sue spalle gli enormi sacchi di carbone, ma col passare del tempo alcuni decisero di trasferire la loro attività in una bottega, abbandonando il lavoro itinerante.

Al giorno d’oggi, ovviamente, ‘o gravunaro è una figura totalmente scomparsa, l’uso del carbone in molte circostante è stato sostituito da metodi e materiali molto più moderni ponendo fine ad un mestiere che procurava guadagno.

 

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